tratto da Ricognizioni
di Luciano Garibaldi
Un libro ed una fiction ripercorrono le vicende che hanno visto il commissario Luigi Calabresi offeso, calunniato, discriminato e infine ucciso. Un uomo la cui onestà, fede e eroismo sono stati esemplari
Era un cattolico, fedele, responsabile caritatevole. Scelse di fare il Commissario di Polizia, con la vocazione di difendere le persone dal male. Si trovò ad indagare sui responsabili della strage di piazza Fontana a Milano. Capì subito che si trattava di un nascente terrorismo. Per questo divenne ostacolo alle mire degli opposti estremisti. Fu diffamato, calunniato. Contro di lui fu alimentata una campagna di odio. Alcuni giornali lo accusarono di aver assassinato Giuseppe Pinelli e ne chiesero l’incriminazione.
Senza la benché minima prova e con argomentazioni puramente ideologiche più di 800 intellettuali firmarono un manifesto contro il Commissario Luigi Calabresi. I gruppi estremisti scrissero e auspicarono il suo assassinio. Le Forze dell’Ordine e la politica si dimostrarono incapaci nel difenderlo. Il 17 maggio 1972, con due colpi di pistola alla schiena e uno alla nuca, il commissario Luigi Calabresi venne ucciso sotto la sua abitazione.
I suoi meriti sono stati riconosciuti solo nel maggio del 2004, quando il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi consegnò a Gemma Capra, amata moglie del Commissario Calabresi, la medaglia d’Oro al valore civile.
Di questa storia è stata fatta una Fiction che la Rai ha mandato in onda martedì 7 e mercoledì 8 gennaio.
La Fiction trae spunto dal libro “Gli anni spezzati – Il commissario Luigi Calabresi, medaglia d’Oro” scritto da Luciano Garibaldi e pubblicato dalle edizioni Ares.
Il giornalista e storico Luciano Garibaldi, ha vissuto in prima persona le vicende di cui si narra, sia come cronista, che come inviato. Ha intervistato la maggior parte dei personaggi coinvolti. Ha fatto ricerche e scritto libri sulle varie fasi della vicenda.
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ZENIT lo ha intervistato. Intervista di Antonio Gaspari
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Chi ha messo la bomba nella banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano?
Luciano Garibaldi: Nessuno può rispondere a questa domanda con la certezza di non sbagliare. Quarantacinque anni e diecine di procedimenti penali nei confronti di estremisti di destra e di sinistra, conclusisi con una serie di assoluzioni “per non aver commesso il fatto”, lasciano spazio alle più svariate ipotesi. Purtroppo, sulla proto-strage che diede il via agli “anni di piombo” continuano a incombere due interpretazioni opposte, entrambe di matrice politica. A destra si è convinti che la bomba fu opera degli anarchici. A sinistra, che fu collocata da elementi di estrema destra manovrati dai servizi segreti deviati, esecutori di una strategia che mirava ad instaurare in Italia un governo forte, capace di evitare al Paese di cadere nella sfera di controllo dell’Urss.
Lei come la pensa, al riguardo? Doveva essere solo un atto dimostrativo o fu un vero tentativo di strage?
Luciano Garibaldi: Non ho mai avuto certezze assolute. Nemmeno all’epoca dei fatti, quando ero inviato di prima fila per conto di quotidiani e settimanali e vivevo tra caserme dei carabinieri, tribunali e questure. Di un episodio però fui protagonista diretto. Fui querelato per diffamazione dall’anarchico Pietro Valpreda per un mio articolo nel quale lo definivo “esperto in esplosivi”. Il processo durò cinque anni dinnanzi al tribunale di Monza e alla fine fui assolto con formula piena perché rintracciai il suo sergente istruttore durante il servizio militare, che testimoniò circa la sua competenza in materia di bombe. Intendiamoci. Ciò non significa che la bomba l’abbia collocata lui. Potrebbe però rafforzare i sostenitori dell’ipotesi secondo la quale le bombe (una seconda a Milano, Banca commerciale, le altre due a Roma) erano state regolate per esplodere alle 16,30, ovvero in un orario di chiusura delle banche. Cioè, solo per fare il botto. E il ragionamento funziona sia che i cervelli fossero “di destra”, sia che fossero “di sinistra”. Anche se, per poter dare fondamento a questa ipotesi, occorrerebbe poter dimostrare che le borse con gli ordigni erano state collocate prima della chiusura degli istituti di credito, ossia prima delle ore 13. E dunque, con dei timer della durata di almeno quattro ore. Ciò che non fu mai possibile sapere, in quanto l’ordigno inesploso recuperato alla Commerciale fu fatto saltare, per ordine della magistratura, prima di poter essere esaminato dagli esperti.
Per un piano preciso, o per superficialità?
Luciano Garibaldi: Non c’è dubbio. Per superficialità e incompetenza.
Che cosa accadde con Giuseppe Pinelli? Fu un suicidio? Perché?
Luciano Garibaldi: Sulla tragedia di Pinelli esistono quattro pronunce della magistratura: due requisitorie, firmate dai pubblici ministeri Caizzi e Gresti, e due sentenze firmate dai giudici istruttori Amati e D’Ambrosio. Requisitoria e sentenza del primo procedimento, che vedeva Calabresi e i suoi colleghi imputati di omicidio colposo, conclusero per il suicidio. Così pure la requisitoria Gresti (che ho deciso di riprodurre nel mio libro per la sua approfondita ed esaustiva analisi), che vedeva Calabresi imputato addirittura di omicidio volontario. L’ultima – e definitiva – sentenza, quella di D’Ambrosio, come tutti sanno, conclude con l’ipotesi della disgrazia: Pinelli si era sporto dalla finestra del quarto piano, e, colto da malore, precipitò nel vuoto.
Che legami c’erano tra il gruppo degli anarchici accusati delle esplosioni e l’editore Giangiacomo Feltrinelli?
Luciano Garibaldi: Non risultano legami diretti. Feltrinelli era indagato per aver dato vita ai GAP (Gruppi di azione partigiana), dal nome dei mitici GAP (Gruppi di azione patriottica) della guerra di liberazione. I GAP si erano resi responsabili di azioni propagandistiche di marca comunista-castrista, interferendo con le trasmissioni della Radio, ed anche di azioni violente, come l’assalto a sassate ad un comizio di Almirante a Genova, nel corso del quale avevano ucciso, sfondandogli il cranio, l’attivista del MSI Ugo Venturini. Feltrinelli aveva poi cercato di “richiamare in servizio” i vecchi partigiani delle formazioni garibaldine, ma non era riuscito nell’intento. La vicenda fu da me ricostruita e narrata in una serie di reportage e di interviste con i vecchi partigiani della Val Borbera e dell’Oltrepò Pavese, che ripropongo nell’ultima edizione del mio libro «Brigate Rosse. Per non dimenticare», pubblicato dalla casa editrice ‘Pagine’ con prefazione di Marco Ferrazzoli.
Che cosa intendeva dire Calabresi quando parlava di “manovali di sinistra e cervelli di destra”?
Luciano Garibaldi: Aveva capito che a sostegno delle azioni violente e delle campagne propagandistiche delle varie organizzazioni estremiste, sia di destra, sia di sinistra, c’era chi pagava, perché – come diciamo noi genovesi – “sensa palanche nu se fa ninte” (“Senza soldi non si fa niente”). E chi poteva avere interesse a finanziare e mantenere in piedi strutture complesse e costosissime come Lotta Continua, Potere Operaio, i CoCoRì (Comitati Comunisti Rivoluzionari), i FoCoCò (Formazioni Comuniste Combattenti) e diecine di altre sigle, capaci di attirare diecine e forse centiania di giovani? Evidentemente, chi sapeva che, dalla “strategia della tensione”, avrebbe potuto ricavare un deciso spostamento della politica italiana verso la destra conservatrice: ovvero, rottura definitiva di ogni apertura a est (Russia, tramite il PCI) e rafforzamento dell’influenza atlantica (ovvero Stati Uniti d’America) sul nostro Paese. Questa strategia finì per vincere la partita, allorché finalmente Berlinguer e il PCI si resero conto dei danni che le formazioni sovversive stavano causando all’ideologia comunista e decisero di schierarsi con la legge, dando il via libera al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che diede inizio alla grande repressione con l’irruzione, nel 1979, del covo di via Fracchia, base centrale della colonna genovese delle Brigate Rosse.
Quali le ragioni della colossale campagna di aggressione contro il commissario Calabresi? Rappresentava davvero una minaccia? E nei confronti di chi? Oppure è caduto vittima in maniera casuale della follia ideologica collettiva che alimentava quegli anni così violenti?
Luciano Garibaldi: Per quanto ho capito, le ragioni vanno ricercate nella pavidità delle istituzioni e nella irresponsabilità delle frange di sinistra del giornalismo. Insomma, i colpevoli del calvario di Calabresi, del vero e proprio linciaggio cui fu sottoposto per oltre due anni, prima di essere assassinato quel 17 maggio 1972, sono da ricercarsi prima di tutto all’interno del governo Rumor, e in particolare del ministero dell’Interno, che non senti l’elementare dovere di schierarsi al fianco del giovane commissario, ma lo lasciò solo a dare inizio ad un processo per diffamazione soltanto verso il periodico “Lotta Continua”, mentre avrebbe dovuto fornirgli i migliori avvocati sulla piazza per querelare quotidiani come “L’Avanti”, “l’Unità” e “Paese Sera”, e settimanali come “L’Espresso”, per non parlare di uomini di teatro come Dario Fo, che aveva scritto, e rappresentava nei teatri, contro di lui (rinominato “commissario Cavalcioni”), la commedia “Morte accidentale di un anarchico”. Per non parlare del “manifesto degli Ottocento”, che definiva Calabresi “commissario torturatore” e “assassino di Pinelli” e che ottenne le firme di tutta l’intellighenzia nazionale, buona parte della quale occupa ancora, le tribune più potenti e più strapagate del giornalismo, della cultura, dello spettacolo, delle Università, dei centri di ricerca, del teatro, della TV, dell’editoria, del cinema. Una vergogna per l’Italia.
L’uomo che più di ottocento intellettuali hanno indicato come un assassino, ha ricevuto la Medaglia d’Oro al Valore civile alla memoria dal Presidente della Repubblica Azeglio Ciampi il 14 maggio del 2004. Per le sua qualità umane e per i principi cristiani a cui si rifaceva, qualcuno ha proposto l’apertura di un processo di beatificazione. Chi era veramente Luigi Calabresi: un commissario dalla maniere forti oppure un eroico difensore della dignità degli uomini, un cristiano serio e coscienzioso che svolgeva un lavoro difficile?
Luciano Garibaldi: Per rispondere a questa domanda, mi rifaccio a quanto disse, dopo la sua morte, il suo padre spirituale don Ennio Innocenti, in seguito autore della proposta di apertura di un processo di beatificazione del commissario, in considerazione delle sue virtù cattoliche: «Approfondì la sua cultura religiosa», disse don Innocenti, «e partecipò fervidamente a gruppi di giovani e di adulti che si riunivano, con periodica puntualità, a meditare la Sacra Scrittura. La sua frequenza ai Sacramenti diventò quella ideale e la sua vocazione al matrimonio fu perfettamente orientata. Fu seriamente preoccupato per la scelta della professione e fui proprio io a incoraggiarlo per la carriera di polizia, essendo anche questa una importante struttura dove i cristiani devono agire come buon fermento. (…) Da Milano spesso mi telefonava e mi scriveva ed io notavo in lui l’evidenza di una straordinaria crescita di serenità, di spirito di sacrificio e di purezza di intenzioni. Qualche mese fa lo chiamai: gli raccomandai, per la difesa della famiglia e del suo ufficio, una prudente cautela per difendersi efficacemente contro i male intenzionati, ma mi sentii replicare ch’egli girava sempre disarmato e che non intendeva prevenire la violenza con la violenza, quando in causa fosse solo la sua persona. “Preferisco affidarmi solo a Dio”, mi disse».
Lei ha seguito tutte le fasi del processo e della condanna dei mandanti e colpevoli dell’assassinio di Luigi Calabresi. A conclusione di questa vicenda quali sono le sue considerazioni?
Luciano Garibaldi: Sono chiaramente esposte nell’ultimo capitolo del mio libro, il capitolo che ha per titolo: «Dieci italiani sanno chi ha ucciso Calabresi”. L’unico, vero pentito di quel crimine è Leonardo Marino, che, per sopravvivere, fa il venditore di crêpes. Tutti gli altri, i mandanti, i consenzienti, i complici, sono riusciti a farla franca. Salvo Bompressi, che ha pagato il conto con la giustizia (mentre Giorgio Pietrostefani non l’ha pagato e ormai non lo pagherà più), e salvo Adriano Sofri, che si è assunto tutte le colpe non sue per proteggere coloro che avevano creduto in lui, tutti gli altri l’hanno scampata. Non solo, ma hanno fatto splendide carriere, passando dalla parte dei potenti, ottenendo privilegi, incarichi dirigenziali, carriere fulminanti.