di Giovanni Tortelli
Che Napoli fosse sempre stata nelle intime corde del professor Pucci Cipriani lo sapevamo, ma non potevamo immaginare che questo amore per la Capitale del Sud arrivasse ai vertici di lirismo che leggiamo nella sua più recente pubblicazione Napoli Città del Trono e dell’Altare – Omaggio alla Capitale del Regno delle Due Sicilie (Solfanelli, Chieti 2022). Un lirismo tale da far diventare questo agile e svelto saggio una vera e propria canzone dedicata a Napoli.
Gli anni trascorsi a Napoli come docente in varie scuole della città, hanno lasciato nell’animo del Professore un’impronta che trascende la memoria e si fa ricordo. Chi ricorda, scriveva Kierkegaard, non è indifferente al fatto ricordato, così come invece accade con la memoria. Il ricordo, il cui etimo rimanda all’idea di «cuore», implica la concordanza di intelletto e di sentimento, cosa di cui è invece manchevole la memoria.
Grazie ai suoi ricordi, Pucci Cipriani fa vivere e rivivere Napoli e le sue molte anime, Napoli e i suoi luoghi, Napoli e i suoi amici di allora, Napoli e tutta la sua «napoletanità», e soprattutto fa entrare tutto questo nell’eternità perché solo il ricordo suscita – a differenza della memoria – il sentimento della perdita e insieme della nostalgia, che attengono alla sacralità della vita, mentre l’intelletto decade col decadere del corpo.
Ecco una buona ragione per tenersi lontani dalle varie «memorie» via via istituite da questa repubblica laica, anonima, senza un passato, massonica e modernista, nient’altro che simboli osservati per forza di legge, non vissuti né viventi e quindi solo vuoti orpelli. È solo il ricordo che vive, è solo il ricordo che si fa Tradizione. Questa è la Napoli che ci trasmette oggi, «per Tradizione», Pucci Cipriani.
Napoli Città del Trono e dell’Altare non è dunque un libro di memorie. Di perdite e di nostalgie trasudano le pagine di questo saggio sapientemente costruito come un racconto, come una rivisitazione attuale di luoghi, persone e momenti immersi in un ricordo lucido, chiaro e distinto e mai mitizzante del passato.
Si tratta di un saggio nel quale Pucci Cipriani indaga con occhio spietato la Napoli di oggi, per leggerla nuovamente nel ricordo dolce e sincero del suo passato monarchico di Capitale di una Borbonia felix dove l’aristocratico e il popolano avevano il medesimo senso religioso della vita, dove l’aristocratico e il popolano si riconoscevano entrambi nel loro Re e nelle istituzioni monarchiche e le amavano, dove le differenze sociali erano ancora ispirate al valore della dignità cavalleresca, cortese e morale, valori che la propaganda dell’invasore piemontese aveva contraffatto e fatto passare per degrado e arretratezza culturale e civile di tutto il Sud.
A questo proposito voglio solo ricordare che prima dell’Unità, il Sud e la Sicilia erano una vera e propria potenza industriale a livello europeo. Le prime a sorgere nel Meridione furono le industrie tessili, che in un primo momento furono a maggioranza straniera, segno che il capitalismo credeva nell’economia del Sud e vi investiva, a differenza di oggi. Seguirono le industrie chimiche ed infine le industrie meccaniche e metallurgiche, per fornire macchinari e ricambi all’industria tessile, ma non solo, anche a tutte le altre industrie in continua espansione. Aggiungo che Re Ferdinando II (1810-1849) promosse quanti altri mai l’iniziativa privata favorendo le società commerciali con azionariato diffuso che permise il coinvolgimento societario fino ai ceti medi, abituandoli alla mentalità del rischio d’impresa. Verso la metà del XIX secolo la Campania divenne la regione più industrializzata d’Italia e, complessivamente, la parte continentale del Regno contava nel 1860 quasi 5000 opifici. All’epoca era il datore di lavoro a fissare salario ed orario, ma – mentre nell’Europa continentale Marx era ancora dietro a teorizzare le sue utopie – il ceto operaio del Sud fu il primo in Italia ad acquisire coscienza corporativa, reclamando aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro. Tutt’altro dunque che una società unicamente agraria e agricola arretrata e basata sul latifondo e sullo sfruttamento delle classi più deboli, come invece ha sempre celebrato la storia scritta dal vincitore piemontese e garibaldino, massone e modernista.
La “(ri)scoperta di questo patrimonio immortale” che è Napoli, come suggerisce don Gabriele D’Avino nella sua Presentazione, avvenne nel 2018 grazie ad un viaggio che potremmo definire iniziatico di Pucci Cipriani con alcuni suoi giovani discepoli.
Fin dall’arrivo alla stazione di Napoli i nomi di oggi e di ieri cominciano a rincorrersi e il Professore ha un balzo al cuore, “come ogni volta, nel rivedere quel mio quartiere dove ho abitato gli ultimi due anni dei miei quattro di insegnamento a Napoli…, sì via Bologna, nel quartiere della Ferrovia, insomma piazza Garibaldi come fu ribattezzata, dopo la colonizzazione risorgimentale, piazza Stazione”.
Di fronte ad una città che nel frattempo “è diventata un suk, un agglomerato afro-arabo disordinato”, sembra sparito il «napoletano-tipo» dotato di quella cortesia, delicatezza e senso di devoto rispetto che solo a Napoli trovavi, quando anche gli sconosciuti ti salutavano affidandoti alla Madonna, “Che a’ Maronna v’accumpagne”.
I nuovi padroni di Napoli l’hanno occupata con le loro cianfrusaglie e con gli odori acri e sgradevoli che sembrano aver preso il posto dei dolci profumi delle sfogliatelle ricce e frolle, del pesce fresco ancora odoroso di mare, delle frutta e delle verdure prodotte in quelle che fino a non troppi decenni fa erano ancora floride campagne e che ora son diventate le «terre dei fuochi».
Ma poi, seppur di fronte allo scoraggiante spettacolo odierno, come i grani di un rosario guidato dal Professore, si ergono oggi come ieri «i luoghi» della Fede e della Tradizione napoletana (e non solo): il Duomo, simbolo della devozione a San Gennaro e al miracolo del suo sangue che puntualmente si liquefa in certi giorni dell’anno liturgico; la chiesa di Santa Caterina in Formiello, che racchiude parte delle spoglie degli Ottocento Martiri di Otranto uccisi dai Turchi nel 1480 per non aver rinnegato la fede cattolica, a perenne monito di un Oriente islamico sempre alla ricerca di una sua cruenta espansione in Italia e in Europa; e poi ancora il munasterio ‘e Santa Chiara, caro a tutti i napoletani (e non solo), con le sue innumerevoli cappelle e col toccante ricordo personale del Professore che nel 1984, con altri amici monarchici, era lì presente ad accogliere le spoglie di Francesco II, l’ultimo Re delle Due Sicilie. E sempre nel monastero di Santa Chiara, la tomba del Servo di Dio il giovane vicebrigadiere dei Carabinieri Salvo D’Acquisto, immolatosi per evitare la rappresaglia nazista contro ventiquattro inermi cittadini.
Il percorso del Professore e dei suoi giovani allievi prosegue con la Piazza del Mercato dove nel 1268 fu ucciso il giovane Corradino di Svevia, sceso a Napoli per rivendicare il Trono e giustiziato dagli usurpatori Angioini; e quindi la Chiesa del Carmine con la devozione del 16 luglio alla «Madonna Bruna», che fu baluardo spirituale dei popoli meridionali anche dopo gli eventi del Risorgimento italiano che portarono all’Unità.
L’antimeridionalismo e l’anticlericalismo volgare e ignorante di un Garibaldi al cospetto del miracolo di San Gennaro o quello di un modesto scrittore unitario come Renato Fucini, fanno sorridere di fronte alla grandezza delle tradizioni storiche ed ecclesiastiche di cui questi luoghi di Napoli e i napoletani tutti possono vantarsi.
Ecco, il manipolo degli ospiti toscani ora è finalmente entrato in Duomo per assistere al miracolo di San Gennaro, che puntualmente avviene. Grande e autentica la gioia del popolo e di quella parte del clero più giovane che vi ha assistito degnamente parato come si conviene, a differenza dei sacerdoti più anziani, quelli che in gioventù erano stati gli entusiasti del Vaticano II, ridotti ora a un insieme informe di cialtroneria esteriore e di indifferenza spirituale interiore.
Stesso stridente contrasto anche in quel gioiello barocco che è la chiesa di San Gregorio Armeno, che ospita le spoglie di Santa Patrizia che, se anche meno famosa di San Gennaro, compie ogni anno lo stesso miracolo della liquefazione del proprio sangue. Luogo veramente venerabile e degno di rispetto per la memoria di quella Santa particolarmente amata dai fedeli napoletani (e non solo). Anche qui, il clima di devozione viene sconvolto da alcune “religiose” new age che, anziché custodire il silenzio, usano le loro chitarre come delle mitraglie.
Questi sono i frutti del Vaticano II, fortemente auspicato e voluto proprio da quel clero che oggi è ottantenne, e che ha formato questi religiosi, degni di una Chiesa al modo di quella di Laodicea (Ap. 3,14-22) e anche peggio.
Infine, Napoli e il mistero della morte. Un tempo – racconta Pucci Cipriani – la morte a Napoli veniva addomesticata e non nascosta o esorcizzata o dimenticata come nella nostra società completamente laicizzata. C’era, allora, sì il dolore per la perdita di un caro congiunto, ma mai la disperazione. In questo rapporto, direi affettuoso del napoletano con la morte, si collocava anche il culto delle «animelle pezzentelle», di quelle anime abbandonate nelle fosse comuni, senza un nome o un culto, la cui traccia è ancora visibile nella chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio, che costituisce infatti un’altra tappa di questo affascinante percorso nel cuore di Napoli.
Ma la rivisitazione di Napoli non poteva fermarsi solo ai luoghi.
I luoghi inducono, fanno da tramite, al ricordo delle persone, degli amici. E tanti sono gli amici ricordati da Pucci, a dimostrazione che la testimonianza della Fede e della Tradizione passa dai luoghi al volto e nelle persone degli amici «ricordati», a cominciare dal giurista professor Enzo Gallo, oltretutto grande esperto della storia di Napoli; e poi Bruno Fitchman che introdusse il Professore negli ambienti della Destra napoletana; i fratelli Gennaro e Angelo Ruggiero, che aiutarono Pucci Cipriani a capire meglio le ragioni storiche del brigantaggio e a farlo appassionare ancor più alla storia del Regno di Napoli, vedendola dalla parte dei «vinti». E poi l’amico per eccellenza, Silvio Vitale, “un amico carissimo e un Maestro per cultura e per stile; un signore d’altri tempi”, consigliere regionale e poi eurodeputato della Destra ma soprattutto fondatore della rivista tradizionalista L’Alfiere – tuttora viva e vitale – la quale ebbe allora collaboratori di prima grandezza (l’elenco delle firme che il Professore fornisce a p. 58 è semplicemente stellare).
Napoli e gli amici napoletani furono anche il cantiere di un altro sodalizio della Destra cattolica, quello che dette origine al movimento Fede e Libertà e al giornale Fedeltà che a sua volta formò i quadri locali della Tradizione Cattolica, istituendo l’adorazione eucaristica, la formazione teologica e l’apologetica antiabortista, fino ad avvicinarsi alla Fraternità San Pio X e a far celebrare la Messa di sempre in rito romano antico. Uno dei frutti di questo sodalizio è proprio don Gabriele D’Avino al quale si deve la Presentazione del saggio.
E poi ancora Giovanni Morrone, Emilio Cristiano e tanti altri napoletani e non, come il benemerito domenicano p. Tito Centi, Piero Vassallo, don Francesco Ricossa. Tutte queste e molte altre furono le personalità che illustrarono la Fede e la Tradizione a Napoli.
Due ricche appendici coronano questo appassionato racconto della Capitale del Sud: una breve riflessione sul brigantaggio e una testimonianza sulla “Fedelissima” Civitella del Tronto, ultimo baluardo pontificio ed emblema degli Stati del Sud contro l’avanzata dei risorgimentali, il cui ricordo annuale costituisce – si può dire – il distillato della vita stessa di Pucci.
Il Brigantaggio – spiega il Professore – fu “una guerra di popolo”, del popolo meridionale che non si riconosceva in quella falsa libertà imposta con la baionetta dai piemontesi. Il Brigantaggio non ebbe mai un vero e proprio capo, ma fu piuttosto un moto di popolo anche perché, continua l’Autore, il popolo meridionale vedeva che l’Unità d’Italia veniva perseguita proprio contro l’unico valore davvero unificante tutti i popoli della Penisola: il cattolicesimo e la cattolicità. Esemplare riflessione, misconosciuta e ignorata dai libri di storia patria imbevuti dalla retorica massonica e anticlericale.
Se ci fu anche il brigantaggio comune, come c’è sempre chi si approfitta del caos per rubare e per saccheggiare, il vero Brigantaggio fu quello lealista, fatto dai «partigiani del Re». Fra questi partigiani lealisti spicca la figura di José Borjes, che l’Autore definisce “eroe romantico”, le cui vicende, raccontate con penna agile e raffinata e con ricchezza di documentazione, appassionano come la lettura di un romanzo storico.
La commovente resistenza di un pugno di uomini a Civitella del Tronto, “la Fedelissima”, è una delle pagine più eroiche di quello che il Professore chiama «l’Antirisorgimento». La ferocia degli invasori fu senza precedenti: l’Autore apre un mondo sulle vicende eroiche di Civitella e di quel che vi accadde, un mondo che sarebbe doveroso far conoscere a tutti e che invece è completamente ignorato dai libri di storia di regime. Addentrarsi in queste vicende fatte di atti di coraggio, di tradimenti, di resistenza fino all’ultimo uomo, di fede, il tutto nel nome della cattolicità, è parimenti avvincente che leggere una storia romanzata, solo che qui invece la storia si fece atrocemente vera e si concretizzò in un vero e proprio eccidio.
Da non perdere la densa riflessione a mo’ di postfazione di Ascanio Ruschi, il cui pregio sta nell’aver individuato la chiave di lettura di questo saggio: quella del professor Pucci Cipriani è “una Napoli ideale, ma non idealizzata, che a tratti sembra sparire, come un bell’acquarello del golfo di Napoli disciolto dalla pioggia corrosiva della modernità”. Ha ragione Ascanio Ruschi quando dice che questo saggio “ha il merito di farci amare di nuovo, o forse di più, Napoli”.
E allora, in conclusione, non si può che ripetere con Wolfgang Goethe, che di Napoli fu un appassionato ammiratore: “Da quanto si dica, si narri, o si dipinga, Napoli supera tutto: la riva, la baia, il golfo, il Vesuvio, la città, le vicine campagne, i castelli, le passeggiate…Io scuso tutti coloro ai quali la vista di Napoli fa perdere i sensi!”
Giovanni Tortelli