Ciò che abbiamo dimenticato, ciechi come siamo nella nostra stupidità di moderni, è il significato dei gesti come criterio dell’azione. Misuriamo i gesti in base ai loro effetti, come fossimo oggetto di un bilancio qualsiasi, anziché apprezzarli o riprovarli per ciò che essi esprimono.
È in questo contesto che va posta la riflessione sulla morte, sul rischio, sul suicidio, sull’omicidio.
Noi chi siamo e che facciamo?
Innanzitutto, fuori da ogni dubbio, esistiamo: su questo siamo tutti concordi.
L’esistenza è l’orizzonte entro cui si gioca ogni altro significato, tentativo, proposito, domanda.
L’esistere è l’ambito in cui cerchiamo di fiorire ed essere felici, cioè di raggiungere il fine naturale, perché la felicità è il compimento della propria natura secondo la sua intrinseca finalità.
Ora, l’esistenza si dà come luogo complesso, del cui fiorire non possediamo la formula e in cui i beni in gioco sono sempre oggetto di difficile ponderazione, di scelte a rischio che compiamo ogni giorno sacrificando qualcosa e cercando di capire che cosa valorizzare e perseguire. L’amore di sé, l’amore del prossimo, le proprie inclinazioni naturali, la rinuncia ad alcune inclinazioni per valorizzarne altre, la composizione del nostro tempo per dedicarci ora a quel prossimo ora quell’altro – nella molteplicità dei “prossimi”.
In un contesto del genere va da sé che l’esistere non possa essere considerato il fine stesso della nostra esistenza, giacché altrimenti dovremmo scegliere che cosa fare solo in funzione della minimizzazione delle possibilità di morire e della massimizzazione della salute. E invece spesso accettiamo dei rischi, per esempio quando prendiamo un aereo o attraversiamo la strada per fare cose buone come andare a lavorare o a trovare un amico, o quando corriamo il rischio di morire per testimoniare la verità. Il cattolicesimo conservatore, arroccato su una posizione passionale o ideologica indurita a motivo delle angherie subite da decenni di pseudocultura progressista e boninpannellista, cade spesso in un equivoco confondendo l’esistenza come orizzonte dei beni con l’esistenza pensata de facto come fine ultimo. Si spiega così, per esempio, la tentazione di certi cattolici di cedere ai peggiori diktat della dittatura sanitaria, trasformando l’esistenza biologica nel fine di tutte le azioni, costi quel che costi, percependo ogni posizione più cosciente della complessità dei beni in gioco come “libertarismo”.
D’altro canto va riconosciuto che l’esistenza è in effetti la stoffa di cui siamo fatti, non è semplicemente un bene tra i vari, diciamo un “bene-strumento”, ma un “bene-condizione”. Senza esistenza non si dà niente, nessun valore e nessun senso. Risulta dunque contraddittoria ogni scelta che ponga la morte come oggetto di scelta.
Scegliere, infatti, è cercare la felicità e ordinare l’azione al significato di sé e la felicità è compimento dell’esistenza: scegliere la non esistenza è dunque una forma sclerotica della libertà. Se sul piano psicologico (che è un piano meramente descrittivo e senza valenza prescrittiva) si comprende che cosa entri in campo in chi sceglie intenzionalmente e direttamente la morte e il suicidio (la fuga dalla fatica, dal dolore, dalle mancanze di questa esistenza), sul piano della verità -che indaghiamo con la ragione e non con l’empatia o coi fasci di sensazioni che ci abitano come fossimo bestie- tale scelta è senza significato, senza valore e senza bene. Da un lato ciò che è senza valore merita disprezzo, oltraggio e condanna (a meno che uno non sia di sinistra e quindi incline a farsi piacere il degrado, lo schifo, l’uguaglianza e l’indescernibilità di tutte le cose, secondo la logica del relativismo perfetto); dall’altro lato il Cristo che è venuto a cambiare la storia ci ha consegnato la capacità di sapere e percepire che la scelta sclerotica, senza alcun valore, ossia il “male morale”, porta sotto di sé una persona che per natura ha come fine il bene, il vero, il bello ed rappresenta un valore ontologico da promuovere, preservare e salvare.
È per questa ragione che chi, sotto la pressione del dolore, della solitudine e dell’acidità in cui spesso la vita si accartoccia anziché fiorire, chiede di essere ucciso, scegliendo di esprimere col proprio gesto la contraddizione del male (scegliere è agire per la propria felicità e non può esistere felicità nel non esistere), necessita non solo di condanna ma soprattutto di amore e di aiuto.
Aiuto a riscoprire il senso della vita e del proprio essere un bene per gli altri: nell’amicizia, nell’accompagnamento, nella condivisione magari silenziosa del dolore. Non è la malattia il bene. Il bene è la tua esistenza nonostante la tua malattia. Non è un bene il tuo dolore. Il bene è la tua vita nonostante il tuo dolore. Si tratta di accompagnare l’esistenza nonostante le sue piaghe e di non affermare con un gesto osceno la preferibilità del nulla al bene.
Una società giusta non cede alla lusinghe dell’emotività che non pensa e che delude, scegliendo invece di riconoscere l’esistenza come valore in cui giocare gli altri valori.
Se si ha fede, si può persino sperare legittimamente di morire, nel senso di sperare di essere tratti al più presto ad una vita superiore e più piena. Ma mai si può esprimere come gesto autentico e fondato la scelta della morte, la scelta del nulla.
I gesti sono, nella loro forma o grammatica, nella loro entelechia, nel loro significato, la sostanza del nostro essere e della nostra libertà.
Il suicidio è il gesto del porre il nulla come valore (meglio il nulla che il vivere, se il vivere non è come lo voglio): una vera e propria negazione del bene che desideriamo e che è il fondamento di tutto.
Certo, l’esistenza è segnata dalla mancanza e dalla condizione ferita, problema ineludibile a cui solo la metafisica e la religione possono dare spiegazione (nel primo caso) e soluzione operativa (nel secondo) quanto alla contraddizione pratica tra ciò che desideriamo come compimento e ciò che viviamo come condizione. Ma se lo scarto tra il fine e la condizione della nostra esistenza fosse una buona ragione per sopprimere la vita, allora dovremmo dedurne l’opportunità di suicidarsi tutti, subito, in questa valle di lacrime (come certa filosofia nichilista ha suggerito). Opzione che cozza con la percezione del valore e del bene a cui l’esistere è realmente inclinato nonostante le ferite.
Per concludere questa riflessione con una considerazione di carattere giuridico e politico, se nei confronti di chi vive l’urgenza e la sofferenza della tentazione del nulla, dello scegliere il nulla come valore, si deve avere questa carità e non abbandonare il disperato alla sua disperazione, invece nei confronti di coloro (tutti) che avendo come dovere di giustizia quello di non facilitare la scelta del nulla e della morte decidono di favorire l’omicidio o il suicidio del proprio prossimo, non si dovrebbe avere alcuna remora ad invocare le peggiori pene pubbliche.
Chi uccide l’innocente è nemico del consorzio umano e come tale deve essere retribuito nella punizione, conseguendo poi dalla pena -per accidente- la riparazione, la prevenzione generale e speciale, la rieducazione del reo.
Per queste ragioni, un partito che dovesse prestarsi all’introduzione di forme di omicidio diretto o di suicidio assistito nell’ordinamento del nostro Paese, non potrebbe più essere votato da nessun uomo di buona volontà e si porrebbe nella drammatica posizione di partito nemico della società e del giusto ordine delle cose.
Lorenzo Gasperini