Tratto da Stilum Curiae
di Antonello Cannarozzo
Leggendo le notizie sulla tragedia che ha colpito il popolo ucraino dal 24 febbraio scorso e della violenza che continua a subire, si rimane addolorati e sconcertati, senza che all’orizzonte ci sia un barlume di pace.
Paesi, città le loro storie, infrastrutture e soprattutto innocenti civili uccisi, tra cui tanti bambini, pone una riflessione, non solo sulla assurda crudeltà della guerra, ma di come nessun Paese, guardando alla propria storia, si possa sentire estrano a queste crudeltà.
La Russia è descritta come una nazione spietata, senza pietà per i vinti, ma cosa avrebbero detto le “anime belle” che oggi condannano Putin se avrebbero dovuto commentare, ad esempio, le stragi avvenute poco dopo l’Unità d’Italia verso la povera gente del Sud strappata al Regno Borbonico?
Una vecchia storia, si dirà, ma pensiamo che vada ugualmente ricordata.
Il giovane Governo italiano, centosessant’anni fa, in nome della nascente Patria, non esitò, attraverso l’esercito per piegare, umiliare, perseguitare proprio coloro che erano andati a “liberare”, soprattutto al Sud, un po’ come oggi i russi nel Donbass, non esitando a scatenare rappresaglie tali che troveremo solo nella seconda guerra mondiale per mano nazista.
Così nelle nostre città, fin nei paesi più piccoli, c’è sempre una strada, un monumento, una scuola dedicata a personaggi che a volte di eroico non hanno proprio nulla eppure vengono considerati addirittura dei “padri della patria”, anche se mai lo furono.
In questa nostra storia, abbiamo il primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II, a cui il destino aveva demandato l’onere di unificare, dopo tanti secoli, l’Italia e così fece, ma fu anche il mandante di dure repressioni attraverso i suoi uomini, specialmente verso i territori dell’ex Regno Borbonico, considerandolo, al di là delle parole altosonanti come Patria, gente solo da conquistare e, addirittura, da dover rendere civile.
Tutto questo con un costo di vite umane assai più numerose di tutte le guerre risorgimentali messe insieme.
Le promesse dei liberatori
Con grandi speranze, la povera gente del Sud aveva visto in Garibaldi, non solo il “Liberatore”, ma una specie di nume tutelare a cui rivolgersi, anche per le sue promesse di dare, tra l’altro, le terre ai contadini e ridisegnare il latifondo, ormai divenuto una vera piaga per il riscatto economico di questa gente.
Assicurazioni però che si dimostrarono, ben presto, semplice propaganda.
L’esasperazione per le promesse mancate, le nuove leggi piemontesi, la leva obbligatoria e tanto altro ancora, crearono un vero e proprio cocktail che di lì a poco sarebbe scoppiato in violenza dove, già presente il brigantaggio, divenne in poco tempo un vero atto di guerra verso l’Italia unita, senza esclusione di colpi e di crudeltà che durò quasi dieci anni con l’esercito, ormai italiano e non più piemontese, formato prevalentemente dal corpo dei bersaglieri con 17 battaglioni su 34 dell’organico complessivo, incrementando così la presenza di altre forze già impegnate per la repressione delle numerose rivolte.
Il rischio assai concreto era che dalla Sicilia alla Calabria, dall’Irpinia alla Lucania fino ad arrivare all’Abruzzo queste rivolte si potessero unificare, con tutto quello che avrebbe creato nelle fragili strutture della giovane nazione.
A Napoli addirittura si organizzarono manifestastazioni che inneggiavano alla deposta dinastia borbonica e, nell’aprile del 1861, venne sventato un complotto composto da soldati e ufficiali del disciolto esercito delle Due Sicilie che portarono all’arresto di oltre 600 congiurati.
Ma le insurrezioni erano ormai assai diffuse, anche, dove era possibile, con l’insediamento di municipalità legittimiste, ovviamente, a questi atti seguiva l’azione repressiva delle forze italiane.
Nonostante questi fatti sempre più numerosi, a Torino nessuno si domandava concretamente delle ragioni profonde di queste insurrezioni, i ribelli, per costoro, erano solo dei briganti e come tali andavano perseguiti, ma cosa c’era realmente dietro a tanta violenza e il nascente astio verso questa nuova Italia sembrava non avesse importanza, nonostante una vera e propria guerra civile tanto più dolorosa perché vedeva contrapposti due eserciti nelle cui fila combattevano italiani contro italiani, in una nazione appena nata, ma già con tutti i vizi dei politicanti.
Un errore fatale che paghiamo ancora oggi e che non dobbiamo mai dimenticare.
Le spedizioni punitive
Molti furono i generali che comandarono spedizioni punitive anche violente e tra questi vogliamo ricordarne uno in modo particolare: Enrico Cialdini.
Prima di continuare il racconto, per la cronaca, è stato tolto nel 2016 a Palermo, come a Catania, il suo nome alle strade per i suoi comportamenti violenti nei confronti del Sud.
Detto questo, Cialdini venne inviato a Napoli con pieni poteri soprattutto contro il brigantaggio, dopo le dimissioni del conte Gustavo Ponza, inadatto ad una politica repressiva.
Subito si sentì sul territorio la mano del militare che non badava a facili sentimentalismi, avviando subito una lotta senza esclusione di colpi verso i rivoltosi.
Rafforzò dapprima l’esercito, arruolando uomini del disciolto esercito di Garibaldi, e perseguendo il clero e i nobili considerati nostalgici del vecchio regime con arresti in massa, fucilazioni dopo processi sommari, devastazioni di casolari, masserie e contro interi centri abitati.
In quegli anni furono rasi al suolo, al grido di “avanti Savoia” decine e decine di paesi e massacrati gli abitanti anche solo sospettati di brigantaggio mozzando loro le teste per appenderli in teche di legno, visibili ancora in molte foto dell’epoca, e poste all’ingresso dei paesi come monito per terrorizzare gli abitanti del luogo.
In una lettera inviata all’allora capo del governo Camillo Benso di Cavour, Cialdini scrive testualmente: “Questa è Africa! Altro che Italia. I beduini a confronto di questi cafoni sono latte e miele”.
Ma il personaggio non era certo nuovo a certe considerazioni nei confronti dei nemici.
L’assedio di Gaeta
Alcuni mesi prima, durante l’assedio di Gaeta dove si era rifugiato Francesco II di Borbone per l’ultima eroica difesa del suo regno, il generale non esitò a puntare i suoi cannoni a lunga gittata verso la cittadella colpendo deliberatamente obiettivi civili e soprattutto l’ospedale dove erano ricoverati altri italiani che avevano l’unico torto di esserlo dalla parte sbagliata per i vincitori.
Un’ azione, come fu detto, per fiaccare lo spirito degli assediati, ormai allo stremo delle forze.
A chi gli faceva notare che tutto questo non era nei codici d’onore militare, l’uomo, con ironia, rispondeva che: “I proiettili dei suoi cannoni non avevano occhi, dunque colpivano dove capitava”.
Fatta questa esperienza, il generale si distinse, come accennato, specialmente nella lotta al brigantaggio combattuta dai contadini e non solo, come risposta alle violenze dei vincitori piemontesi, loro liberatori.
Una pagina della nostra storia studiata, tra l’altro, da Antonio Gramsci nel suo saggio sul Risorgimento, nel quale evidenziava gli errori e le tragedie che colpirono il Meridione, nel quale, da politico, si ribellava alla concezione che davano quei: “scrittori salariati che si ostinarono a infangare con il nome di briganti”.
Davanti agli eccidi ed ai massacri perpetrati nei confronti spesso di gente inerme, potremmo oggi ricordare una celebre frase di Mao Tse Tung, quando affermò, durante la Rivoluzione Culturale:” Educarne uno per educarne cento” e così fece il Cialdini per dare una lezione ai ribelli.
Pontelandolfo e Casalduni erano due comuni campani della provincia di Benevento, ribellatesi ai liberatori piemontesi.
Una storia, purtroppo tra le tante, che va ricordata.
La vendetta sulla popolazione
Tutto ebbe inizio l’11 agosto del 1861 quando un commando di quaranta soldati, altre fonti dicono 20, insieme a quattro carabinieri ebbe l’ordine di compiere una ricognizione per appurare la portata di una recente sommossa.
Arrivati a pochi passi dai centri abitati tra Pontelandolfo e Casalduni, vennero catturati dai briganti, un azione che trovò l’appoggio delle popolazioni locali esasperate dal nuovo Governo italiano.
Il destino che attese questi soldati fu la loro condanna a morte, un atto che non possiamo esimerci dal definire criminale anche se, non dobbiamo dimenticare che questa era ormai una vera e propria guerra non dichiarata con morti e feriti da ambo le parti.
I tragici avvenimenti arrivarono in un baleno al comando centrale delle operazioni, dove, davanti alla notizia che dei suoi soldati avevano trovato la morte per mano dei briganti, il generale Cialdini non esitò a ricambiare questo crimine con altrettanta ferocia, pretendendo una immediata: “Vendetta che ripagasse il sangue col sangue” e accecato dalla rabbia tuonò: “Li voglio tutti morti! Sono tutti contadini e nemici dei Savoia, nemici del Piemonte, dei bersaglieri e del mondo. Morte ai cafoni, morte a questi terroni figli di puttana, non voglio testimoni, diremo che sono stati i briganti”.
Parole di odio e vendetta e non di giustizia, come avrebbe dovuto fare essendo rappresentante dello Stato, ma solo rappresaglia.
“Di Pontelandolfo e Casalduni non rimanga pietra su pietra” così Cialdini nei suoi ordini rivolti ai suoi sottoposti, anticipando di due anni la legge del senatore del Regno Giuseppe Piga che consentiva di fucilare sul posto anche solo i sospetti ed era usuale favorire di non usare misericordia ad alcuno e tutti quanti se ne avessero tra le mani, dunque, massacrarli senza, per altro, fare prigionieri.
Seguì, dunque, un vero e proprio eccidio, dimenticato troppo facilmente dal governo italiano e subito ridimensionato dalla storiografia dei vincitori.
L’ordine del generale venne rivolto al colonnello Pier Eleonoro Negri ed al maggiore Carlo Melegari che erano a capo di due reparti dell’esercito rispettivamente diretti a Casalduni e Pontelandolfo.
Distruzione, fucilazioni e stupri
Il primo comune fu trovato quasi deserto poiché i cittadini vennero avvertiti della rappresaglia mentre a Pontelandolfo la sorte fu meno benevolaed il destino di quelle genti fu segnato da morte e distruzione.
I cittadini vennero infatti sorpresi e colpiti nel sonno, le case distrutte ed incendiate, le chiese profanate, gli uomini brutalmente fucilati.
Le donne prima subirono percosse e violenze sessuali e poi vennero uccise.
I due paesi vennero rasi al suolo come il generale Cialdini aveva ordinato e affinchè questi avvenimenti non sembrino una fake news, riportiamo integralmente le modalità dei fatti perpetrati scritte bersagliere Carlo Margolfo presente ai fatti, nelle sue memorie tra cui leggiamo:
“Al mattino del giorno 14 (agosto) riceviamo l’ordine superiore di entrare a Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno le donne e gli infermi (ma molte donne perirono ugualmente) ed incendiarlo. Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava; indi il soldato saccheggiava, ed infine ne abbiamo dato l’incendio al paese.
Non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli cui la sorte era di morire abbrustoliti o sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava…Casalduni fu l’obiettivo del maggiore Melegari. I pochi che erano rimasti si chiusero in casa, ed i bersaglieri corsero per vie e vicoli, sfondarono le porte. Chi usciva di casa veniva colpito con le baionette, chi scappava veniva preso a fucilate. Furono tre ore di fuoco, dalle case venivano portate fuori le cose migliori, i bersaglieri ne riempivano gli zaini, il fuoco crepitava.”
Questi erano gli avvenimenti, agli albori dell’Unità d’Italia, che avvenivano nel Mezzogiorno in nome del Re galantuomo e della ritrovata Unità della Patria da poco proclamata.
Fatti e tragedie certamente relegate ad un tempo ormai lontano, con fermenti ideali anni luce dalla nostra quotidianità, ma ricordarli significa, nel bene come nel male, capire anche la nostra storia attuale, e non è certo cosa da poco.