di Giovanni Tortelli
Anche chi ne ha frequentato a lungo la produzione scientifica e ne ha sempre apprezzato le doti di fine studioso e di illustre professore, non può che restare davvero impressionato dalla ricchezza dottrinale profusa da Roberto de Mattei nella sua recente La sovranità necessaria – Riflessioni sulla crisi dello Stato moderno (per «I Libri del Borghese» – Roma 2019): una vera e propria summa intorno al principio della suprema autorità di governo e delle sue diverse interpretazioni ed applicazioni nella storia, che cattura e attrae non solo lo specialista, ma qualunque tipo di lettore. Perché uno dei pregi dello scrittore, del docente e dell’oratore de Mattei è sempre stato quello di coinvolgere qualunque destinatario, e di trasmettergli anche le nozioni più complesse con la semplicità e la chiarezza di chi dispone di una grande sapientia mentis che è anche sapientia cordis.
Ma, a ben guardare, c’è anche un altro aspetto interessante da mettere in rilievo: in un momento come il presente in cui questa classe politica particolarmente ignorante e rozza cerca di tradurre in azioni di governo un pensiero che va chiaramente contro Dio e contro natura, il fatto che de Mattei abbia voluto invece porre al centro dell’attenzione concetti come la sovranità, l’autorità, la potestà; e abbia parlato di imperi, di regni e di corone, di papi e di monarchi, di unzioni e di consacrazioni, e li abbia illustrati in questa forma di mirabile explanatio, non solo è opera culturalmente meritoria, ma lo è anche sotto il profilo morale.
Lo Studioso mette infatti a disposizione di chiunque abbia buon senso e buona volontà tutti gli strumenti per essere in grado di capire ciò di cui oggi si parla sul piano politico. E così sarà più chiaro a tutti da quali e quanti errori storici escano fuori gli odierni sostenitori, ad esempio, dello “ius soli”, dei “porti aperti”, delle “parità di genere”, delle “chiese chiuse”, dell’europeismo ateo e senza radici cristiane, della multiculturalità a senso unico, della solidarietà per così dire fraterna ma in realtà a scopo di lucro come quella delle varie organizzazioni non governative, e via dicendo.
In questo momento così politicamente vuoto, eppure così pieno di politicanti, la lettura de La sovranità necessaria di de Mattei fa bene alla salute. Riporta ordine, mostra chiaramente quella che l’Autore chiama ipertrofia statale di marca liberale che ha fatto degenerare la «forma-Stato» e la «forma-governo» – così armoniose nell’arco dei dieci secoli medievali – soprattutto in forza delle dottrine di Hobbes, Rousseau e Hegel (p. 122). Un’ipertrofia che – forse nemmeno troppo paradossalmente, visto che viviamo in piena post-democrazia – oggi mette in crisi perfino l’attività legislativa ordinaria, come si può facilmente osservare dalla minima attività funzionale di tutti i parlamenti e di quello italiano in particolare, regolarmente aggirato oppure ostacolato dall’ipertrofia dell’esecutivo: vale a dire una degenerazione nella degenerazione.
L’uomo ha dimenticato che il potere viene da Dio, e fa bene l’Autore a rammentarlo e a sottolinearlo, citando le fonti autentiche: la sentenza dei Proverbi (“Per me reges regnant”, Prov. VIII,15); l’insegnamento di san Paolo (“Non est potestas nisi a Deo”, Rom. 13,1); ma soprattutto ricordando le parole di Nostro Signore che comanda di dare a Cesare quel che è di Cesare (Mt. 22,21) e dispone la coesistenza sulla terra di due autorità sovrane: un potere spirituale, proprio della Chiesa (potere come «auctoritas»); e un potere temporale incarnato nel ruolo di Cesare e di tutti i «Cesari» della storia (potere come «potestas»). E, fra i due poteri, non ostilità, ma collaborazione e anzi fratellanza, secondo la dottrina gelasiana dei «due luminari».
Questo era l’ordine che Dio aveva voluto e che aveva rivelato nelle Scritture. Sant’Agostino spiegava che questo ordine è la disposizione che colloca al loro posto le cose uguali e quelle disuguali ed è anche la via più breve che conduce a Dio (De ordine, I, 9-27) tanto che nemmeno il male può alterare o contraddire questa grande opera di bontà che è il cosmo e nel cosmo la natura e l’uomo (De libero arbitrio, III, 9-27).
La «filosofia del Vangelo» – ricorda l’Autore – governava gli Stati, con Carlo Magno e da Carlo Magno in poi per lunghi secoli, quelli della scintillante media aetas, durante la quale era tutt’altro che scandaloso affermare che ogni uomo aveva un superiore. Anche il re: “Nel medioevo, sovranità significa innanzitutto superiorità e rinvia al concetto di autorità e di gerarchia, prima ancora che a quello di esercizio del potere. Il feudatario è sovrano nel proprio campo ma dipende dal re, così come il re è sovrano nel proprio ordine ma dipende dal Papa” (pp. 21-22). Nessun giurista medievale sarebbe incorso nella moderna confusione del termine lex, col quale si può intendere sia la legge naturale che quella positiva, dal momento che nella concezione medievale esiste un unico sovrano assoluto: Dio stesso (p. 34).
A partire dal XVI secolo, Jean Bodin comincia a riempire il concetto di sovranità con l’esercizio della funzione legislativa e ritaglia un territorio più limitato di sovranità assoluta, quella appunto della sovranità legislativa assoluta (p. 53). Ma anche il nesso fra l’idea di sovranità e quella di legge sbiadisce e si dissolve all’ombra delle corti italiane in pieno XVI secolo e con Machiavelli la sovranità diventa «problema pratico» di esercizio del potere, e Machiavelli finisce per rappresentare egli stesso quasi il prototipo dell’uomo marxista che si propone non più di conoscere il mondo, ma di cambiarlo (p.67).
Su questa strada, fra il XVI e il XVII secolo, con l’affermazione del protestantesimo e delle sue sette, si compie la rottura definitiva fra il cristianesimo e la Chiesa, cioè fra il cristianesimo e il potere politico. Una volta soppressa la presenza della Chiesa nell’ordine temporale, il vuoto verrà colmato dallo Stato con l’assolutismo luterano o con l’individuo nella prospettiva calvinista. Ma intanto si assiste a un nuovo trapasso, quello dell’emancipazione del diritto dalla morale e con ciò l’apertura della via all’assolutismo.
È con Thomas Hobbes che nel XVII secolo si assiste alla nascita della vera scienza politica moderna e il presupposto è che il fondamento dello Stato non debba ricercarsi in un’esigenza naturale dell’uomo, ma in un accordo fra gli individui in forma di contratto sociale in forza del quale gli individui alienano totalmente i diritti naturali in favore di un potere assoluto. L’ipotesi contrattualistica definirà il pensiero del sovranismo fra il XVII e il XVIII secolo.
Sta esattamente qui, come mette in rilievo Roberto de Mattei, il momento di trapasso vero e proprio dal medioevo politico alla modernità laica e razionalista.
Ed è a questo punto che si deve porre la distinzione sostanziale fra concetto di monarchia assoluta e quello di assolutismo statale: dall’«ipertrofismo monarchico» nascerà il dispotismo illuminato, quello ad esempio di Giuseppe II d’Austria o di Caterina II di Russia o di Ferdinando IV di Napoli, e su questo dispotismo illuminato si fonderà lo Stato ipertrofico moderno, sempre meno basato sull’aristocrazia rurale e sempre di più sulla burocrazia delle cancellerie che diventeranno sempre più onnipotenti e onnipresenti.
L’ipertrofia, statale e monarchica, porta con sé degli effetti nefasti che finiscono col cancellare l’ordine gerarchico medievale e con esso l’armonia cosmica fra il tutto e la parte: vale a dire il rifiuto del diritto divino dei re; il principio di tolleranza; la razionalizzazione dell’amministrazione e della giustizia in forma di codificazioni nazionali e la progressiva parlamentarizzazione delle funzioni legislative, non più appannaggio dei re e delle Corone (pp. 90 ss.).
Si giunge ben presto al capovolgimento del principio paolino per cui non vi è nessuna potestà che non provenga da Dio, e si affacciano sulla scena della storia e della politica le prime Dichiarazioni dei diritti, i primi scritti sul terzo stato: la sovranità passa ora al «potere costituente», vero potere sovrano che non ha superiori gerarchici essendo esso stato fonte suprema di poteri, di diritti e di doveri.
Il passo è breve fino all’affermazione rivoluzionaria che “la sovranità, alla quale vengono ormai attribuite tutte le perfezioni della divinità, non risiede nella nazione o nel popolo francese ma nell’insieme del genere umano. La Repubblica non sarà dunque quella di un qualche popolo ma di tutta l’umanità” (p. 96).
Fondamentali sono i passi che Roberto de Mattei dedica al nodo rivoluzionario del 1789, anche alla luce delle parole del britannico Edmund Burke per il quale quella “banda di assassini” (i rivoluzionari francesi) avrebbe portato nel mondo un nuovo tipo di guerra, molto diverso dai precedenti, fino a farla arrivare al rovesciamento delle istituzioni nazionali. E anche qui il passo fu assai breve: dalla Rivoluzione francese all’anarchismo e al socialismo, da Proudhon che si definiva il primo anarchico a Bakunin che teorizzava la trasformazione degli Stati sulla base di un’autorità non più proveniente dall’alto, ma dal basso verso l’alto.
Il «panlogismo» hegeliano che portò alla divinizzazione dello Stato e poi al «pangermanesimo» di fatto e di diritto fecero il resto, grazie a quella Realpolitik ideata da Bismarck nei primi decenni del XIX secolo e che portò all’unità tedesca basata su “sangue e ferro”.
Il pangermanesimo di Arthur de Gobineau, di Houston S. Chamberlain e di Richard Wagner si propose come alternativa romantica ed irrazionalista alla Rivoluzione francese. Del resto inizia ora l’epoca dei grandi irrazionalisti: Schopenhauer, Kierkegaard, e poco più avanti Nietzsche. Ma intanto le dottrine marxiste e dei seguaci di destra e di sinistra di Marx, stavano rapidamente trasformando il volto degli uomini e degli Stati: “Il governo degli uomini verrà sostituito dall’amministrazione delle cose”, secondo le parole di Friedrich Engels.
La dissoluzione della sovranità si manifestò al mondo coi due colpi di pistola con cui il serbo Gavrilo Princip uccise a Sarajevo l’erede al trono imperiale asburgico Francesco Ferdinando e la consorte: era il 28 giugno 1914. Furono i colpi di pistola che sancirono il crollo, di lì a qualche anno, dell’Impero asburgico: un evento paragonabile alla rivoluzione francese. Dice giustamente de Mattei che la Conferenza di Versailles del 1919, che chiamò gli Imperi Centrali alla resa dei conti dopo la loro sconfitta nel primo grande conflitto mondiale, “distrusse ciò che Vienna aveva rappresentato negli ultimi cento anni: i principi di legittimità e di equilibrio” (p. 125).
Assolutamente imperdibili sono le pagine che de Mattei dedica al dibattito giuspubblicistico intercorso nei decenni fra le due grandi guerre, focalizzato intorno alle figure dei due massimi rappresentanti di allora della stessa disciplina: Hans Kelsen e Carl Schmitt. Come dire il padre dello Stato universalistico e ipertrofico di diritto e il padre del ritorno ad un “assoluto asociale” precedente alle tesi hobbesiane di contratto sociale.
E poi, dopo l’interessantissimo percorso sulle dittature, sui totalitarismi e sulla rivoluzione sovietica, l’Autore ci conduce all’idea di sovranismo secondo il pensiero di Pio XII. Il quale, muovendo dalla certezza di un «Dio personale» sul quale è modellata la dignità dell’uomo, riporta a Dio anche l’autorità dello Stato nel momento in cui il potere statale è modellato per partecipazione a quello di Dio. Così che la vera concezione pïana dello Stato è quella di un organismo basato sull’ordine morale del mondo, col primo ed essenziale insegnamento cattolico che deve consistere nell’eliminare gli errori che allontanano la sovranità dalla sua essenziale dipendenza da Dio (p. 144).
Si può dire che, dopo gli errori e i travisamenti degli ultimi due secoli di storia europea, papa Pio XII sia stato il primo a richiamare e a ristabilire il collegamento fra lo Stato e la morale, fra lo Stato e l’ordine stabilito da Dio.
Dopo la dissoluzione dello Stato-Moloch in seguito al crollo del regime sovietico, si è assistito alla costruzione di un nuovo Moloch: quell’europeismo senza radici cristiane e cattoliche che vuole segnare ancora una volta la liquidazione degli Stati nazionali su basi nemmeno politiche, ma solo ed essenzialmente economico-finanziarie.
Ancora una volta nella storia d’Europa, alla negazione del principio di causalità della metafisica politica corrisponde la negazione della sovranità.
Soltanto che oggi non abbiamo un Pio XII che ci richiami all’essenzialità metafisica dell’uomo e dello Stato con Dio.
E allora, così de Mattei conclude lo splendido suo teorema, la fine del sovranismo starà in una “dis-società cosmica assolutamente ugualitaria e al tempo stesso assolutamente panteista, nella quale il relativismo dialettico marxista e l’evoluzionismo nazional-socialista si uniscono per instaurare il dominio del caos e dell’anarchia. Vero regno delle tenebre che dovrebbe dissolvere l’universo riconducendolo allo stato precedente il divino fiat, ossia al nulla primordiale” (pp. 186-187).
L’affresco dipinto dall’Autore, che comincia dall’alba di un Medioevo scintillante di sacralità nei due ordini spirituale e temporale, sembra terminare con la constatazione di questi tempi bui in cui ogni luce sembra spenta.
In realtà, Roberto de Mattei ci dice proprio il contrario: che questo tempo di tenebre non potrà annichilire la filiazione divina dell’uomo e i valori ad essa connessi fra cui, non ultimo, il senso di uno Stato in cui il potere non sia mera funzione materiale ma ordine sacro, il principio di un reditus ad Deum che è nella Rivelazione e nella natura dell’uomo.
Giovanni Tortelli