di Roberto de Mattei
Tratto da Radio Roma Libera
Il Rito romano antico è il rito più antico della Chiesa cattolica, come scrive monsignor Gamber nella prefazione alla Riforma della Liturgia Romana: «Esso rappresenta, ad ogni modo, il rito più antico»[1].
Nei primi tre secoli dopo la morte di Cristo, la Messa consisteva di due parti principali: la prima era una liturgia della Parola con preghiere, lettura e predica; la seconda era l’Eucaristia celebrata dal vescovo secondo formule fisse. Allora non venivano ancora usati libri liturgici, a parte la Bibbia da dove provenivano le letture. Il modo in cui la Messa veniva celebrata in quel periodo è descritto nella celebre Apologia di san Giustino Martire (morto nel 164): qui si possono già trovare tutti gli elementi essenziali del Rito romano antico.
Una volta stabilita la prassi, nel IV secolo, di scrivere la liturgia, il modello evidente nella Messa sin da quella data si è cristallizzato in quattro riti “sorgente”, dai quali derivano tutti gli altri. Tre dei quattro riti derivano dalle antiche patriarchie di Roma, Alessandria e Antiochia; il quarto, il rito Gallicano (che può, a sua volta, derivare dal rito antiocheno), forma la base delle liturgie del nord Italia, Gallia, Germania, Spagna, Britannia e Irlanda.
Entro il V secolo, le parti della liturgia dette dal sacerdote all’altare cominciarono a venir raccolte in libri chiamati “sacramentari”.
Verso la fine dell’VIII secolo, Carlo Magno ottenne una copia di un sacramentario, chiamato “il sacramentario gregoriano”, da Papa Adriano I, al fine di ottenere una liturgia più uniforme nel suo impero. Carlo Magno incaricò Alcuino di York del completamento. Il sacramentario era romano e, come tale, sobrio e dignitoso. Venne completato attingendo da fonti gallicane, che gli conferirono un tono più coinvolgente. Il libro che ne risultò divenne il primo messale ufficiale per l’Europa.
All’inizio del XIII secolo, i francescani adottarono questo messale “secondo il rito della curia romana” per il loro Ordine.
Nel tardo XIII secolo Papa Nicola III ne impose una forma modificata alla diocesi di Roma, che è, «in tutti i suoi aspetti importanti, la forma che si trova nel messale di san Pio V»[2].
Durante il Medioevo sorsero varie divergenze negli usi liturgici e nei costumi in terre come Francia, Germania e Africa, il che dimostrava la necessità di adottare un rito romano unificato: necessità ancor più pressante in considerazione dell’insorgenza delle eresie eucaristiche protestanti.
Per queste ragioni venne decretata una riforma del Rito romano dal Concilio di Trento, riforma promulgata sette anni dopo la sua conclusione (nel 1570) con la Bolla Quo Primum di san Pio V.
Questo rito, che venne imposto a tutta la Chiesa di disciplina romana, non fu considerato dal Papa come un nuovo rito, ma come un consolidamento e codificazione («statuimus et ordinamus»), e come un ritorno all’antica norma e antico rito dei santi Padri («ad pristinam sanctorum patrum normam et ritum»).
Questo breve schizzo storico può essere utile per dimostrare che non ci fu una serie di riti che culminò nel rito di san Pio V, o, meno ancora, che il rito di san Pio V fosse il risultato del “pensiero del Concilio di Trento” (come il Nuovo rito, si può argomentare, è il risultato del pensiero del Concilio Vaticano II)[3].
E’, piuttosto, la forma definitiva del Rito romano della Messa che ha avuto un certo sviluppo, particolarmente nella prima fase della sua esistenza, e una certa variazione nella seconda parte della sua esistenza.
Dalla promulgazione del Messale romano nel 1570, il Rito romano antico rimase sostanzialmente invariato per quasi quattro secoli sino alla riforma della Settimana santa nel 1955-56[4]. Questa riforma venne fatta da una commissione, fra i cui componenti vi erano i futuri Paolo VI, il cardinal Bea[5] e monsignor Bugnini, insieme a don Carlo Braga.
Don Carusi commenta: «Fin dalla domenica delle Palme, si inventa una ritualità verso il popolo e con le spalle alla croce e al Cristo dell’altare, il Giovedì Santo si fanno accedere i laici nel coro, nel rito del Venerdì Santo si riducono gli onori da rendere al Santissimo e si altera la venerazione della croce, nel Sabato Santo (che don Braga descrisse come «testa d’ariete che è penetrata nella fortezza della nostra liturgia, ormai statica») […] si demolisce la simbologia relativa al peccato originale e al Battesimo come porta d’accesso alla Chiesa […] e si tagliano proprio i passaggi evangelici relativi all’istituzione dell’eucaristia». La domenica delle Palme e il martedì e mercoledì della Settimana santa, venne eliminata l’istituzione della santa Eucaristia, che precedentemente era sempre connessa al racconto della Passione in quei giorni, mostrando così, inter alia, la natura sacrificale della Messa[6].
In seguito a questi cambiamenti, la successiva innovazione nel testo della Messa fu l’introduzione di san Giuseppe nel canone da parte del beato Giovanni XXIII; tale innovazione turbò la simmetria del canone e costituì il suo primo cambiamento dai tempi di san Gregorio Magno[7].
Ma, dalle disposizioni contenute nei documenti Sacrosanctum concilium del Concilio Vaticano II nel 1963 a quelle contenute nel Missale romanum nel 1969, una serie di cambiamenti vennero fatti al rito romano, cambiamenti di così ampia portata e così profondi, da distruggere il rito completamente e da sostituirlo con un altro.
Più avanti prenderemo in considerazione il carattere di questo Nuovo rito; per il momento citeremo alcuni esperti liturgici per quanto concerne la distruzione del Rito antico.
Padre Josef Gélineau sj, un peritus del Concilio e apologista liberale della nuova liturgia, nel suo libro Demain la Liturgie (1976, MD p. 77-8) dichiara: «A dire il vero, è una liturgia diversa della Messa. Questo va detto senza ambiguità. Il rito romano come noi lo conoscevamo non esiste più. E’ stato distrutto…, [l’edificio precedente]… appare oggi come una rovina o la parziale sottostruttura di un diverso edificio».[8]
In maniera similare, il cardinale Ratzinger, nella sua autobiografia La mia Vita, scrive: «Il vecchio edificio è stato demolito e un altro è stato costruito, in gran parte dal materiale del precedente edificio naturalmente, ed usando anche lo stesso disegno […], ma era un nuovo edificio»[9]. Come aveva constatato il cardinale nella sua introduzione alla Riforma della liturgia romana di monsignor Gamber: «Questo non è lo sviluppo di una liturgia vivente, ma la sostituisce con una fabbricazione che segue il modello della produzione tecnica: il prodotto pronto del momento».[10] Monsignor Gamber scrive (op. cit.): «al posto di un rinnovamento fruttuoso della liturgia, [si attuò] la distruzione delle forme liturgiche che erano cresciute organicamente nel corso di molti secoli»[11].
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[1] «Sie stellt auf jeden Fall den aeltesten Ritus dar». Ci riferiamo all’articolo in corso di stampa: Le origini apostolico-patristiche della Messa cosiddetta “Tridentina’’, che trae le sue origini da nostro Signore Gesù Cristo stesso. L’articolo cita a questo riguardo M. Righetti Manuale di Storia Liturgica I, Milano 1964; la tradizione manifestata nel Testamentum Domini e da san Giustino Martire che il Signore ha dato disposizioni liturgiche il giorno stesso della Sua Risurrezione; e la testimonianza di san Leone (Sermo 72, 2) e di Sisto V (nella bolla Immensa) secondo cui il Signore le ha date tra la Risurrezione e l’Ascensione. Cita in particolare la prima lettera del papa san Clemente ai Corinzi (c. XL), enumerando esplicitamente le disposizioni liturgiche del Signore. Cosa, difatti, sarebbe stato più importante da stabilire per la Chiesa nel tempo dopo la Risurrezione se non il santo e perpetuo Sacrificio?
[2] MD, cap.1
[3] Come monsignor Bugnini opina (al III 25.1 p. 390 del suo libro La Riforma Liturgica, op. cit): «Ambedue sono scaturite dalla volontà riformatrice e dai principi stabiliti da un Concilio».
[4] Cfr. La Riforma della settimana santa negli anni 1951-56 di don Stefano Carusi in Disputationes Theologicae 2010 (Internet), e Semaine Sainte Restaurée di monsignor Gromier (conferenza tenuta a Parigi nel luglio 1960), dove il prelato spiega come la liturgia fu cambiata contro i principi fondamentali non solo della liturgia ma anche del stesso buon senso.
[5] Conosciuto per la sua nuova versione dei salmi che erano rimasti inalterati sin dai tempi della traduzione di san Girolamo nel IV secolo.
[6] Col Nuovo rito la lettura della Passione Martedì e Mercoledì Santo fu altresì soppressa.
[7] Dom Guéranger scrive (nella sua Spiegazione… della Santa Messa, De Vita Contemplativa, Suore Francescane dell’Immacolata, 2008) che la Chiesa non aveva incluso il suo nome nel canone tra l’altro perché: «non voleva che si toccasse né modificasse in nulla, neppure nei dettagli, una preghiera liturgica consacrata e stabilita fin dall’antichità cristiana […] manifestando in questo come in tutto la sua prudenza».
[8] C’est une autre liturgie de la messe… le rite romain tel que nous l’avons connu n’existe plus. Il est détruit.
[9] «Man brach das alte Gebaeude ab und baute ein anderes, freilich weitgehend aus dem Material des Bisherigen und auch unter Verwendung der alten Bauplaene…ein Neubau» (p.173) Aus meinem Leben, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart, 1998.
[10] «… nach dem Muster technischer Produktion das Machen, das platte Produkt des Augenblicks». Nella stessa introduzione descrive il Nuovo rito come una “falsificazione” (Verfaelschung). Rimandiamo il lettore alla “conclusione” di questo saggio (prima dell’Epilogo) per due sensi di questo termine.
[11] «anstatt einer fruchtbaren Erneuerung der Liturgie, eine Zerstoerung der in vielen Jahrhunderten organisch gewachsenen Formen des Gottesdienstes».