di Don Stefano Carusi

Tratto da: Disputationes Theologicae

INDICE
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Parte Prima:
Lo Stato Pontificio e i corpi intermedi

“Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo” 

Ambrogio Lorenzetti – Palazzo Pubblico di Siena

            Il mondialismo massonico d’oggi propone, o meglio “impone” un modello di gestione del mondo, in cui la nozione stessa di “stato”, di “ordinamento statale”, di “cosa pubblica” vengono sciolti, liquefatti e rifusi in un’idea informe al servizio della grossa finanza internazionale e di chi la manovra come “instrumentum regni”. Senza radici, senza identità, senza religione, senza re, senza aristocrazia, senza nemmeno più il popolo e senza nemmeno più – se mai fosse possibile – quella terra che abbiamo sotto i piedi, si costruisce un mondo fondato sulla dissoluzione d’ogni certezza naturale e soprannaturale e su un idealismo che vorrebbe abbattere tutte le frontiere e tutti i limiti dell’essere creato.

            In risposta a questa deriva riproponiamo ai nostri lettori il testo di una conferenza tenuta circa vent’anni or sono al Convegno di Controrivoluzione di Civitella del Tronto, dal titolo originale “Lo Stato Pontificio e i corpi intermedi”, per cercare di leggere nella storia dello stato cattolico per eccellenza quelle indicazioni che non hanno tempo e che in parte rispondono alla crisi innescata dall’odierno “statalismo”.

            In fondo l’idea centrale, che vedremo nella sua applicazione pratica nella storia dell’amministrazione degli Stati Pontifici, è quella che già Aristotele e San Tommaso avevano illustrato: non si applica un’idea alla realtà stravolgendo quest’ultima pur di mantenere intatta l’idea preconcetta, ma si legge la realtà che a noi si presenta – e che un Altro da noi ha creato con le sue regole –  e solo poi si cerca il miglior sistema di governarla, indirizzandola verso il suo bene oggettivo. E’ così che i due grandi pensatori, pur con quella preferenza per la monarchia che San Tommaso giustifica dicendo che è quella che più assomiglia al governo divino, non assolutizzano nessun modello amministrativo, ma ci dicono che la forma monarchica, aristocratica o democratica possono essere tutte e tre buone, purché rispondano all’indole e alla tradizione dei popoli governati. Di più, quegli adattamenti amministrativi stratificatisi nel tempo, adattandosi alla diversità delle realtà, possono essere spesso una ricchezza da mantenere. In altri termini ci sono popoli e territori che vanno governati in maniera diversa perché – semplicemente – sono diversi. Non esiste un modello unico di governo da riprodurre in serie, esistono popoli, storie, territori, culture. Non si calano sistemi, si costatano realtà.

            Vi è poi nello stato anche un genere di sostegno al governante, e al contempo di limite, costituito da quelle realtà sociali che naturalmente sono parte dell’insieme e come tali sono da rispettare. Si tratta di quelle entità che sono come le membra di un corpo che il capo non può recidere senza grave danno per il benessere di tutto l’organismo, entità che non si sostituiscono al capo, ma che il capo non può sopprimere o modificare a capriccio perché non le inventa lui, le constatata o al limite ne favorisce la nascita, lasciando che le inclinazioni di natura prosperino. Sono i “corpi intermedi”.

            Come la Chiesa dispiegò la sua millenaria saggezza nell’amministrare quei territori ad essa sottomessi anche “in temporalibus” e quali furono alcune applicazioni pratiche del descritto principio è l’oggetto di questo studio. Senza la pretesa d’essere esaustivi, ma con quella di fornire alcuni spunti di riflessione ed avendo ben chiaro che quanto proposto presuppone preliminarmente la sconfitta dell’odierna apostasia.

            I frutti di buon governo, di ricchezza, di fioritura del sapere e delle arti nello Stato Pontificio non hanno bisogno di spiegazioni per chiunque non sia digiuno di storia, una delle cause di tanta prosperità è anche da individuare nell’esercizio mediato della sovranità. Un’impostazione profondamente lontana dalla divinizzazione assoluta dello Stato e della legge positiva e dall’uniformizzazione assoluta del globalismo d’oggi. Per capire nel concreto la distanza che separa questi due mondi, concentreremo lo sguardo su tre aspetti: il primo sarà il rapporto tra autorità centrale e territorio, esigenza di unità intorno al governante e rispetto delle peculiarità e delle autonomie dei governati, riuniti a loro volta in altre società non da fagocitare o dissolvere, ma da rispettare. Il secondo punto riguarda l’aspetto economico della concezione della proprietà terriera e del suo utilizzo a pro della prosperità dello Stato e tutelando i poveri al contempo. Aldilà della concezione certamente datata, che vedeva la ricchezza prevalentemente nella terra, l’occhio attento e non ideologizzato saprà scorgere quale fosse l’impostazione economica da dare ad un ordinamento che cerchi di osservare la giustizia e la carità, nella legittima ricerca del benessere anche economico, ma senza affamare i poveri. Il terzo punto si concentra sull’opera di aggregazione ed assistenza effettuata dai ceti di mestiere e dalle confraternite, che univano ed organizzavano gli strati della società intorno a compiti ben precisi e incarnati sul territorio, così da essere un vero ed efficace collante per la società, occupandosi di tutti.    

Le premesse storiche

            Nel corso dei secoli V-VII d. C., dopo lo spostamento della sede imperiale a Costantinopoli e il progressivo trasferimento dell’aristocrazia senatoria sul Bosforo, Roma si presentava come una cadente città di provincia; salvo l’esempio di Giustiniano, il disinteresse degli imperatori era tale da allarmare i contemporanei; le uniche autorità a preoccuparsi delle sorti della città erano i Vescovi dell’Urbe, che per il loro prestigio avevano assunto un ruolo catalizzatore[1].

            L’intervento dei pontefici andava spesso a colmare le latitanze imperiali, al punto che il rifornimento di derrate della Città, l’Annona, andò a gravare sui granai della Chiesa; il tradizionale ruolo di assistenza ai poveri si confondeva così con i compiti che il potere civile non era in grado di assolvere[2].

            I Vescovi romani, nonostante svolgessero effettive funzioni di governo, costantemente ribadirono la propria fedeltà all’Imperatore, al punto di implorarlo, spesso veementemente, di occuparsi con maggiore sollecitudine dell’Occidente e Gregorio Magno, nel 593, “denunciò con angoscia il vuoto lasciato dal Senato[3].

            Nel corso della prima metà dell’VIII secolo la situazione cominciò a prospettarsi insostenibile: i Longobardi di Astolfo minacciavano Roma, nel completo disinteresse di Bisanzio, peraltro effettivamente impotente […].  Nel 756 Pipino III il Breve, Re dei Franchi, al termine della vittoriosa campagna d’Italia, donava i territori invasi dai Longobardi al Principe degli Apostoli, «a S. Pietro e per lui al Pontefice regnante e ai suoi successori in perpetuo»[4]. Presso la Confessione di San Pietro furono depositati il documento (donatio) e le “claves portarum civitatum[5]: con l’atto si provava l’avvenuta consegna. Carlo Magno, confermando la donazione paterna, menzionava il confine settentrionale dei territori donati, da Luni nella Toscana settentrionale (“Luni cum Corsica’’) a Monselice passando per Parma e Reggio, consegnava al Pontefice un vasta porzione dell’Italia che includeva, oltre il Centro-Italia e il Meridione con le tre isole maggiori del Tirreno, anche Venezia e l’Istria; ma la questione dei confini, soprattutto quelli nord-orientali, ha suscitato in passato fra i giuristi, oggi fra gli storici, polemiche non ancora sopite[6].

            L’assenso imperiale alla donazione fu ribadito da Ludovico il Pio nell’817 e dal Privilegiumdi Ottone I nel 962; anche l’Imperatore Enrico II nel 1020 confermò l’operato dei suoi predecessori. Se dubbi possono essere sollevati sulla facoltà di donare territori bizantini da parte dei primi re Franchi, altrettanto non può dirsi per gli ultimi esempi[7].

            Lo Stato Pontificio andava lentamente delineandosi in una situazione di grande incertezza e instabilità, i pontefici si trovavano di fronte un territorio che usciva dalle rovine delle invasioni barbariche e dal disinteresse dei Bizantini (e per il quale si prospettava una lunga latitanza degli imperatori germanici). Ad aggravare la situazione si aggiunsero nel corso dei secoli IX e X le incursioni dei Saraceni (870, 910) dalla loro base sul Garigliano e le invasioni degli Ungari dal Settentrione (927, 937, 942), avvenimenti che furono alla base del fenomeno dell’incastellamento in tutta la campagna romana. Ma laddove possibile i Papi cercarono costantemente di mantenere il tessuto cittadino romano, favorendo così quell’impulso comunale che segnerà la grande fioritura del Medioevo in Italia centrale.

Segue la Seconda Parte: Città e periferie pontificie: una sovranità mediata


[1]   G. Arnaldi, Le origini del Patrimonio di S Pietro, in Storia d ’Italia, diretta da G. Galasso, Torino, v. VII, t. II, pp.  15 e ss. Funzionari bizantini furono presenti a Roma fino al secolo VIII, ma la loro effettiva influenza nella politica cittadina fu marginale: cfr. O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, in Storia di Roma (ed. Istituto di Studi Romani), Bologna 1941, v. IX.

[2]   Ibidem, p. 38 e ss.; per la gestione dei patrimoni ecclesiastici cfr. V. Recchia, Gregorio Magno e la società agricola, Roma 1978.

[3]  Ibidem, p. 16. Anche in seguito i Papi, salvo ‘‘l’eccezione vistosa di Gregorio III, erano stati sempre attentissimi nel procurare che la difesa dell’ortodossia e la stessa esigenza del contenimento dei longobardi non pregiudicassero una linea di assoluto lealismo [verso l’Impero]”. Ibidem, p. 114.

[4]   Ibidem, pp. 119, 120.

[5]   Ibidem.

[6]  Per la complessa questione dei confini cfr. Arnaldi, op. cit., pp.127 e ss. I testi delle donazioni sono in A. Theiner, Codex diplomaticus domimi temporalis S. Sedis, recueil de documents pour servir à l’histoire du gouvemement temporei des Etats du Saint-Siège extraits des archives secrètes du Vatican, Rome 1861.

[7]  Sussistono dubbi fra gli studiosi in merito alla legittimità del gesto di Pipino; secondo alcuni egli non avrebbe avuto potestà riconosciuta sulle terre donate, formalmente ancora bizantine, come non l’aveva Carlo nel 781. Quest’ultimo, dopo l’incoronazione imperiale dell’800, vide riconosciuta la propria potestà sull’Occidente da parte del collega bizantino solo nell’812. Per comodità si è dato l’appellativo di “Re” anche a coloro che erano piuttosto delle guide di popoli.

Parte Seconda:
Città e periferie pontificie: una sovranità mediata

di Don Stefano Carusi

Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo, Sala dei Nove del Palazzo Pubblico, Siena
Parete Est (Effetti del Buon Governo in città e in campagna), le mura aperte di Siena, tra città e campagna.

Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo, Sala dei Nove del Palazzo Pubblico, Siena 
Parete Est (Effetti del Buon Governo in città e in campagna), le mura aperte di Siena, tra città e campagna.

Durante i secoli XI-XIII si assisté al diffuso sorgere delle autonomie comunali, i cui statuti ebbero quasi sempre il sopravvento sugli ordinamenti feudali. Giova rammentare che la tradizione urbanocentrica dell’Italia non era mai venuta meno e la densità di sedi vescovili, quindi di città, era particolarmente alta proprio nell’Italia centrale[1]. Nel periodo in questione i Papi non hanno il pieno controllo del territorio e, grazie all’esercizio di una «autorità mediata attraverso comunità e istituzioni giuridiche che insistono, a loro volta, sul territorio e che hanno col potere centrale (…) rapporti molto diversificati implicanti comunque una qualche misura di bilateralità»[2], i Comuni prosperano e si innesca «un processo di ricostruzione di una territorialità imperniata sulla città, che non ha precisi termini di paragone nelle altre aree d’Europa»[3].

Il consolidamento dello Stato ecclesiastico vedrà, per citare esempi significativi, l’impegno di Gregorio VII, la risolutezza di Innocenzo III e di Bonifacio VIII, «ma gli Stati cittadini – si constata – sono piuttosto inglobati negli stati regionali che non sussunti e trasformati; gli ordinamenti territoriali di comunità di valle, di centri minori, di signorie territoriali sono rispettati da un potere politico centrale che ha un atteggiamento costatativo nei confronti delle istituzioni assise sul territorio, prende atto della loro esistenza, ne assume la tutela (“il sovrano tutore”)»[4]. Nel processo di rafforzamento degli Stati regionali non si sconvolge la geografia politica preesistente, ma la si rispetta e le si riconosce una funzione fondamentale, rispettando quell’idea di sovranità tipica del Medioevo, che cede ai “corpi intermedi” ampi poteri: «nello Stato Pontificio la territorialità delle città soggette (soggette ma ancora e sempre capitali provinciali, con larghe competenze in ambito giurisdizionale e fiscale) mantiene un peso molto rilevante, destinato a perdurare per molti aspetti sino alla fine dell’Ancien Régime»[5].

Nel 1309 ha inizio per la Chiesa il periodo della “cattività avignonese”. I Papi nella residenza coatta di Avignone devono sottostare alla pesante tutela della monarchia francese. Nelle maggiori città dell’Italia papale, sull’onda di una prassi diffusa, a profittare della situazione saranno alcune famiglie. I domini pontifici vedranno la fioritura di un numero straordinario di Signorie che a vario titolo governeranno su territori di media estensione, improvvisandosi despoti di provincia o protestandosi, in ricerca di legittimazione, feudatari della Santa Sede. L’epoca signorile vedrà l’esasperazione dell’orgoglio delle città egemoni; la fierezza dei Comuni aveva dilagato nei secoli precedenti grazie alla tolleranza dei Pontefici, ora quei capoluoghi dall’esteso contado, che avevano eretto austeri Palazzi Civici per le proprie piazze e svettanti campanili per le proprie Cattedrali, si sentivano capitali a tutti gli effetti, seconde solo all’Urbe, alla quale riconoscevano, in ambito temporale, un primato quasi più d’onore che di fatto.

Nel 1353 giungeva nelle terre della Chiesa il cardinale Egidio d’Albornoz come legato e vicario generale di Innocenzo IV; il compito del porporato era di ricondurre all’obbedienza città e istituzioni che avevano eccessivamente abusato della lontananza dei Papi; nell’arco di due anni il legato riuscì nella straordinaria opera di portare al riconoscimento della supremazia pontificia nel Patrimonio toscano, nel Ducato di Spoleto e nella Marca. Grande merito dell’Albomoz e causa del suo rapido successo fu «un atteggiamento privo di rigidezze dottrinali. Non esisteva un modello fisso di subordinazione comunale»[6].

Nella primavera 1357 il Cardinale volle la promulgazione delle Constitutiones Aegidianae, «rimaste in vigore, almeno in parte, nello Stato della Chiesa sino al 1816»[7], il cui spirito avrebbe permeato tutti i futuri rapporti tra potere centrale e istituzioni periferiche. Le Constitutiones codificarono un modello d’ordinamento amministrativo che, nel lungo termine, avrebbe dato frutti abbondanti; il Cardinale non volle interferire nelle varie forme di governo locale con le quali si imbatteva; in assenza di precisi divieti o controindicazioni le differenziazioni, specie se derivanti da tradizioni specifiche, non erano viste come elemento d’intralcio al consolidamento dello Stato.

Leggendo il testo, si constata che «le laudabiles et antique consuetudines»[8] vennero affiancate alla legislazione albornoziana, a patto che non fossero «a jure prohibite»[9]. Allo stesso modo gli «statuta ordinamenta, decreta aut municipales leges»[10] furono accolti di buon grado, a patto che non fossero «contra libertatem ecclesiasticam vel contra constitutiones generales nostras»[11].

Veniva sanzionato il principio del rispetto degli usi locali e delle tradizioni, alla condizione che non andassero a ledere i diritti della Chiesa.

Per quel che concerne l’organizzazione interna dei comuni, va notato che è pressoché impossibile fornire un quadro unitario della situazione nei domini pontifici, proprio in virtù della prassi suesposta, perché le realtà amministrative, lungi dall’essere imposte dall’alto, si forgiarono a seconda delle caratteristiche geografiche e insediative, e variarono a seconda dei momenti storici; si avevano forme di democrazia diretta, di governo aristocratico, di partecipazione mista “borghese” e nobiliare, di legislazione antimagnatizia con l’esclusione della nobiltà dalle magistrature o, più tardi, di tipo podestarile.

Dal XIII secolo in poi assunsero potere sempre più rilevante le Arti, associazioni che raggruppavano i membri dei mestieri e che difendevano i propri interessi in ambito legislativo e fiscale[12]. Il diritto consuetudinario venne ad avere la sua codificazione all’interno delle società comunali con ordinamenti che tutelavano le diverse componenti sociali attraverso un sistema corporativo e che curavano gli interessi delle popolazioni del contado attraverso una capillare rappresentanza territoriale[13].

Molti comuni avevano, nel XIV secolo, conosciuto esiti signorili, in virtù dei quali si era instaurato nelle città e nei territori soggetti un regime monocratico, che faceva capo ad una famiglia; anche in questi casi l’Albornoz aveva accettato lo status quo, limitandosi ad esigere atti di sottomissione più formale che reale. Sul termine del XV secolo la spinta signorile si andava esaurendo e iniziava, per la Santa Sede, il lungo capitolo della recupera dei territori infeudati, del passaggio delle città, dal dominio mediato del signore locale, allo status di città immediate subiectae ovvero direttamente dipendenti dalla Sede Romana. Anche in questo caso, con una politica inveterata, il potere centrale non ardiva e non voleva soggiogare le comunità dello Stato, che nei secoli avevano dato prova di straordinaria capacità di autogoverno, senza eccessive turbolenze[14].

Con le città, il ritorno al diretto dominio pontificio si concordava ma non si imponeva; nel caso di Urbino si sarebbe atteso per decenni[15]. Nel contempo si garantiva rispetto per le consuetudini e le autonomie, si tutelavano le leggi locali e si concedeva facoltà di promulgarne di nuove, si riconosceva il diritto di determinare autonomamente la composizione del ceto dirigente, al momento della devoluzione e negli anni a venire[16]. La prospettiva era di lasciare che i centri maggiori continuassero ad esercitare il ruolo di capitali del proprio territorio; in taluni casi la Santa Sede giunse a concedere il mantenimento del titolo di “Stato”; spesso tale riconoscimento si protrasse fino alla caduta del potere temporale dei Papi, a dimostrazione che la larghezza delle concessioni non era un imperativo dettato dalle contingenze, ma una vera e propria linea d’intervento[17]. Si prendeva atto dell’esistenza di un insieme di stati minori, la cui sopravvivenza era garantita all’interno di una compagine più ampia, in cambio si chiedeva ai beneficiati il riconoscimento dell’assolutezza del potere temporale, che va letto non nel senso dell’assolutismo regio dell’età moderna come negli stati protestanti o nella Francia di Luigi XIV, ma piuttosto nel senso medievale di summa legibusque soluta potestas[18] del Pontefice, per cui il Governante, vedendo le cose dall’alto deve amministrare in vista del vero bene comune e proprio per questo non è tenuto al pedissequo e legalista rispetto di ogni norma giuridica. Egli non è sottomesso alle leggi positive (è appunto absolutus, ovvero “sciolto”, “libero”), piuttosto le adatta o le corregge laddove sono d’intralcio al bene, le applica appunto ad mentem legislatoris, avendo nella legge naturale e rivelata o nel diritto consuetudinario i limiti al suo potere regio.

 Nell’ottica di uno “Stato di Stati”, Roma non era città dominante se non per il richiamo spirituale e perché residenza del sovrano (niente di simile si poteva riscontrare in Europa, ma neanche nella Repubblica di Venezia, nello Stato fiorentino o nel Ducato di Milano)[19].

Il potere centrale si limiterà ad inviare nella periferia dei rappresentanti, ma terrà sempre distinti gli ambiti di intervento, non solo nei confronti delle magistrature cittadine, ma anche riguardo i poteri religiosi locali; laddove il Pontefice inviasse Cardinali legati o Prelati governatori, si evitarono sempre sovrapposizioni con l’autorità vescovile del luogo; nello “Stato del Papa”, il Vescovo aveva funzioni pastorali, mentre le occupazioni temporali erano appannaggio dei legati pontifici[20].

Tra potere centrale e periferia si stringevano patti, per cui i “governatori” inviati e gli organismi cittadini collaboravano al buongoverno della cosa pubblica, nel reciproco rispetto dei ruoli; il “governatore” non era un plenipotenziario (ricorsi alla Sacra Consulta o alla Congregazione del Buon Governo nei loro confronti saranno frequentissimi)[21] è i magistrati comunali non erano dei dispotici oligarchi; si creava piuttosto nei capoluoghi una sorta di diarchia che cercasse di garantire da eccessi e soprusi.

La libertà cittadina si fondava su governi locali i cui membri venivano scelti, al mutare dei luoghi e dei tempi, da famiglie aristocratiche del territorio o da tutta la popolazione urbana con diritto di cittadinanza, dai capitani delle arti o da tutte le tre categorie menzionate; in alcuni casi il governo locale era affidato ai maggiorenti, a volte con esclusione della nobiltà feudale, in altri frangenti erano ammessi alle magistrature anche coloro che si occupavano delle “arti meccaniche”, o quanti praticavano l’agricoltura in fondi di proprietà[22].

Il modello che avrà maggior diffusione sarà quello patriziale, i magistrati venivano eletti o sorteggiati da un nucleo di famiglie ascritte in appositi registri, esso costituirà un corpo aperto e i nuovi ammessi saranno spesso cooptati secondo uno “ius proprium”, in completa autonomia rispetto al sovrano, che si limiterà spesso a ratificare le norme degli Statuti Civici. Nei consigli erano rappresentate le Associazioni di mestiere, come continuavano ad avere voce in capitolo le comunità del contado e, in caso di eventi straordinari anche i capi degli ordini religiosi, interpellati come persone di saggezza ed esperienza[23].

Grazie a questa elasticità la Santa Sede, nel corso di due secoli (XV-XVI), riuscì in una impresa apparentemente disperata, il recupero di un territorio soggetto a riottose città; progetto sicuramente più arduo che altrove, essendo l’autorità centrale priva di una continuità dinastica e di indirizzi familiari, il Papato è carica elettiva, avendo il pontefice una corte, la Curia Romana, cosmopolita e variegata, e, fattore estremamente influente, non disponendo il sovrano «in toto, come negli stati protestanti, del patrimonio ecclesiastico»[24]. Quest’ultimo nell’universo cattolico era sottoposto a norme consuetudinarie stratificate, che vedevano una selva di istituzioni proprietarie, oscillanti dalle confraternite agli ordini possidenti, dalle mense vescovili ai benefici parrocchiali, dai canonicati alle cappellanie. Si rendeva pertanto impossibile, se mai qualcuno l’avesse pensato, indirizzare lo sfruttamento economico di quel capitale in funzione del rafforzamento del vertice dello Stato, come invece avveniva in età moderna tra i principi protestanti, i quali avevano incamerato i beni ecclesiastici, gestendoli in maniera autocratica.

Tanto più difficoltosa si prospettava l’opera, tanto la pazienza e la lungimiranza dei Pontefici si rivelarono fruttuose: azioni di forza, che avrebbero indebolito e spossato quelle città, che invece costituivano il nerbo e la ricchezza dello Stato, furono limitate o pressoché bandite; si diede largo spazio all’autodeterminazione locale, nella coscienza che nessuno avrebbe potuto amministrare meglio un territorio, che andava dalle paludi pontine a quelle ferraresi, dalle selve della Tuscia alle feraci colline della Marca, da Benevento ad Avignone, se non le forze locali, che avevano prosperato sulla base di rapporti ed usi più che secolari.

A tanta attenzione nel trattare i propri sudditi arrise una stagione di ricchezza e prosperità, in cui i vantaggi si moltiplicarono per i governati e per i governanti: Montaigne, Montesquieu, Goethe si meravigliavano del fitto reticolo urbano delle province pontificie, oltre cento città, metà delle quali con una sede vescovile anteriore al Mille, della presenza di una “seconda città” del pari di Bologna, dell’autosufficienza delle comunità locali «sotto il profilo delle strutture assistenziali e degli ammortizzatori sociali: ospedali, opere pie e caritative, monti di pietà e frumentari, annona (…) attività legate allo scambio e distribuzione delle merci (fiere e mercati) […] gestioni di forte rilievo nell’economia agraria (comunanze, domini collettivi) o connesse al governo idrologico del territorio (si pensi alla disciplina delle acque interne nel ferrarese e nel bolognese)»[25].

Ancora oggi è leggibile la vivacità della vita culturale delle città, che un siffatto sistema di governo permise dall’epoca medievale fino alle produzioni artistiche del Rinascimento, del Barocco e del Settecento, la fioritura di teatri e tribunali, di musei e biblioteche, di accademie letterarie e scientifiche, di collezioni pubbliche e private rendono testimonianza di una passata opulenza. Allo stesso modo la realtà provinciale costituirà, per l’amministrazione centrale, un serbatoio di giuristi, formatisi in alcune fra le più antiche Università, lo Stato ne conta ben otto: Ferrara, Bologna, Perugia, Fermo, Camerino, Urbino, Macerata oltre naturalmente alla Capitale.

Un paesaggio dove l’identità di un territorio si legava a un capoluogo, col quale si identificavano anche gli abitanti delle più sperdute campagne, dove i limiti delle realtà amministrative erano poco più che provinciali, dove le città immediate subiectae, così orgogliose di un glorioso passato, dovevano obbedienza solo al Papa.

La Rivoluzione francese scardinò l’antico sistema con le idee dello statalismo d’oltralpe e l’epoca successiva della cosiddetta “Restaurazione” non seppe riproporre – certo con gli adattamenti che si rendevano necessari alle mutate circostanze – lo spirito della sovranità mediata e delle autonomie medievali. Anche negli Stati Pontifici si stenta a vedere quella decisa volontà di ricostruire un tessuto che aveva portato tanta pace e tanta prosperità nel passato e, complice anche una certa sudditanza culturale del mondo cattolico verso alcune idee illuministe, si inseguì, seppur timidamente, un modello di “ammodernamento amministrativo” che guardava forse troppo alle pressioni europee e troppo poco alla vecchia tradizione di equilibrio fra centro e periferia. Nulla di paragonabile tuttavia alla tempesta ideologica dell’epoca “unitaria” che si abbatterà con tutta la sua ferocia sullo Stato Pontificio sconvolgendone il secolare ordinamento territoriale.

Ancora nel 1832 il Cardinale Tommaso Bernetti  scriveva : «Tutte le istanze e controversie relative a cambiamenti territoriali concernenti aggregazioni o separazioni di comunità (…) si risolveranno dai rispettivi delegati (…) dopo di avere esplorato il voto delle popolazioni interessate»[26]. Pochi anni dopo, all’indomani dell’Unità d’Italia, dando invece prova di quello spirito accentratore tanto caro ai governi d’ispirazione rivoluzionaria si soppressero, in dispregio alle rimostranze della popolazione, le province di Frosinone, Velletri, Civitavecchia, Orvieto, Viterbo, Camerino, Rieti, Fermo, Spoleto. Per il cosiddetto “stato moderno” l’idea concepita a tavolino prevale sulla realtà e di fatto si smembrarono territori affini e si unificarono paesaggi differenti, nel mito, condiviso dai soli cartografi, di disegnare inesistenti regioni[27].

Segue la Terza Parte: Gli usi civici. Tutela del poveri.


[1] G.M. VARANINI, L’organizzazione del territorio in Italia: aspetti e problemi, in La Società Medievale, a cura di S. Collodo e G. Pinto, Bologna 1999, pp. 135 e ss.

[2] Ibidem, p. 161.

3 Ibidem, p. 162.

[4]   Ibidem, p. 168.

[5]   Ibidem, p. 169.

[6]   D. Waley, Lo stato papale dal periodo feudale a Martino V, cit., p. 295.

[7]   E. Saracco Previdi, Descriptio Marchiae .Anconitanae, Dep. di Storia patria per le Marche, Ancona 2000, p. XXI; per l’opera del cardinale d’Albornoz cfr. anche P. Colliva, Il Cardinale Albornoz, lo stato della Chiesa, le Constitutiones Aegidianae (1353-1357), Bologna 1977, con in appendice il testo volgare delle costituzioni di Fano dal ms Vat. Lat. 3939, Bologna 1977.

[8]  P. Sella, Costituzioni Egidiane dell’anno MCCCLVII, Roma 1912, pp. 233 e ss.

[9] Ibidem.

[10]  Ibidem, e pp. 84 e ss.

[11] Ibidem. Per un approfondimento della questione cfr. Colliva, op. cit.

12 J.C. Maire Vigueur, Comuni e Signorìe in Umbria, Marche, Lazio, in Storia d’Italia, cit., I comuni nel periodo consolare e podestarile, pp.383 ss.

[13] Ibidem, pp. 383-384.

14 B.G. Zenobi, “Le ben regolate città”, modelli politici nel governo delle periferie pontificie in età moderna, Roma 1994, pp.14-16 e 45-49.

[15]  La devoluzione del Ducato d’Urbino avverrà solo nel 1631. Cfr. Zenobi, op. cit., p. 95.

[16]  Ivi, p. 238.

[17]  Si veda ad esempio il caso di Camerino al quale anche dopo la devoluzione del Ducato e il passaggio a sede di Delegazione Pontificia fu riconosciuto il titolo di Stato, Città e Ducato, P. Savini, Storia della Città di Camerino, Camerino 1895, passim. L’uso di tale dicitura è frequentissimo nei documenti d’archivio cittadini e nell’uso generale almeno fino all’avvento della Rivoluzione francese, dall’epoca della Restaurazione in poi le menzioni si fanno più rare.

[18]  Cfr. anche R. de Mattei, La sovranità necessaria. Riflessioni sulla crisi dello Stato moderno, Roma 2001.

[19]  B. G. Zenobi, op. cit, p. 6.

[20]“Salvo temporanee e rarissime supplenze interinali o speciali attribuzioni di poteri commissariali affidati eccezionalmente ai titolari del governo spirituale delle diocesi (…) immediatamente reperibili (..) e ben informati degli affari locali”. Ivi, p. 6.

[21]  Ibidem, pp. 47-48.                                                                                                                                                           .

[22] Ibidem, pp.197 e ss.

[23] P. Savini, op. cit., p. 180.

[24] B. G. Zenobi, Le ben regolate città, cit., p. 51.

[25]  Ivi, p. 7.

[26]  Editto del Cardinale Tommaso Bernetti “Disposizioni sull’organizzazione amministrativa delle provincie”, Roma 1831, nella stamperia della Rev.da Camera Apostolica, titolo I, 4.

[27] Osservazioni interessanti in proposito provengono anche da altri punti di vista, cfr. R. Volpi, Le regioni introvabili, centralizzazione e regionalizzazione dello Stato Pontificio, Bologna 1983. 

Parte Terza:
Gli Usi Civici, le Comunanze agrarie, le Confraternite

di Don Stefano Carusi

Nel multiforme panorama, offerto dallo Stato Pontificio, la ripartizione della proprietà terriera aveva molti tratti in comune con contemporanee amministrazioni d’Ancien Régime, ma, date le peculiarità del territorio, mostrava in alcuni casi sviluppi singolari.

Nello studio dell’organizzazione degli usi civici e delle terre di proprietà collettiva bisogna osservare che una trattazione generale si rivela riduttiva, le citate diversità ambientali avevano sortito un adattamento degli usi alla geografia.

Tutto il territorio dello Stato Pontificio vedeva il riconoscimento del diritto a possedere collettivamente; ampie estensioni di terra venivano godute da tutti gli abitanti della comunità, vi esercitavano il diritto di pascere, di fare legna, in alcuni casi di seminare per il fabbisogno familiare. Questa particolare forma di conduzione agraria doveva la sua esistenza alla necessità di tutelare 1’esistenza dei poveri. Permetteva, in una società agricola, ai nullatenenti di sopravvivere, di possedere piccole greggi o qualche armento da pascere nelle terre comuni, di scaldarsi, di cucinare e di fabbricare con il legname delle selve pubbliche, di cacciare e pescare in monti e laghi non soggetti ad una legislazione solo privatistica dei beni.

Nel tracciare la storia di questi diritti alcuni ne fanno risalire l’origine alla cultura feudale, altri si spingono a ricollegarli alle transumanze delle greggi dei popoli dell’Italia preromana; ma l’ipotesi più ragionevole appare la più ovvia, tenuta ab antiquo e formulata dal Cardinal Giovanni Battista de Luca1 agli inizi dell’Ottocento: la ragion d’essere dell’esistenza delle proprietà comuni, accanto a quelle private, è insita nel diritto naturale e ha origini remote, da quando gli uomini nella notte dei tempi avvertirono il bisogno della proprietà privata, ma riconobbero la necessità di un uso collettivo di alcuni beni. La concezione del Cardinale si sposa con la dottrina cristiana sulle ricchezze, donate da Dio agli uomini per vivere e prosperare, ma non perché pochi se ne impadroniscano in un uso a proprio esclusivo vantaggio.

I primi documenti, che attestano l’esistenza di beni comuni nello Stato della Chiesa, fanno riferimento al sec XIII, riguardano Sezze, Perugia, Orvieto; a Velletri l’emergere delle strutture del Comune è testimoniato dalla presenza dei “procuratores silvae” che amministrano le foreste comunali2. Dall’altro versante dello Stato, a Bolognola e Visso, nell’Appennino umbro-marchigiano, la proprietà collettiva, nel caso del primo centro attestata da un documento del 13533, « copre fino al 70 % del territorio comunale, costituito da foreste e pascoli; l’allevamento degli ovini e lo sfruttamento dei boschi, che rappresentano la risorsa principale delle popolazioni montanare, si basano essenzialmente sulla proprietà collettiva »4; questo tipo di sfruttamento è diffuso in molte località dell’Italia centrale e permette ai meno abbienti un diffuso allevamento ovino e suino5. Spesso lo sfruttamento regolamentato di queste risorse è alla base della nascita di una coscienza di comunità, che investirà anche abitati di dimensioni modestissime e concorrerà alla nascita di nuovi comuni.

In gran parte delle paludi pontine la pesca viene effettuata in stagni e corsi d’acqua di proprietà comunale; allo stesso modo il diritto di cacciare su terreni pubblici offre la possibilità di catturare grossa selvaggina nelle foreste e uccelli acquatici nei laghi6.

Accanto alla proprietà collettiva permangono fino all’età moderna anche i cosiddetti usi civici; essi prevedevano, secondo il de Luca, che alcune comunità o il barone esercitassero lo ius pascendi, in determinati periodi dell’anno su fondi di proprietà privata. In alcuni casi l’origine di questi diritti poteva rimontare all’epoca della cessione da parte della Comunità o del feudatario di porzioni di terreno, riservandosi però la facoltà di pascolare e far legna. Nel caso il cedente fosse stato la Comunità, a godere dei privilegi conservati erano tutti gli abitanti, erano questi i cosiddetti pascoli “de jure dominii”. Nel caso dei pascoli “de jure cessionis” era un privato che aveva ceduto il diritto di pascolo alla Comunità, che poi lo devolveva ai suoi membri. Il caso più rilevante tuttavia era costituito dai pascoli “de jure civico o consuetudinario” che risalivano ad una tradizione immemorabile, gli abitanti delle Comunità avevano il diritto di pascolare il bestiame in terre dei privati, dei baroni, comunali, aperte (non recintate), non coltivate; il diritto in alcuni casi era esteso ai terreni dopo il raccolto, dopo la falciatura del fieno e nei boschi quando fossero passati tre anni dal taglio7.

Secondo Antonio Coppi, nei suoi scritti del 1842, gli usi civici (lo ius pascendi) investivano nello Stato della Chiesa intorno alle 300000 rubbie di terra (circa 554000 ettari) pari a circa il 13,27% dell’intero territorio; ma la situazione era molto più marcata nel Lazio dove, secondo i dati del Nicolaj (i dati sono dei primi dell’Ottocento), nella delegazione di Frosinone il fenomeno interessava circa il 43% del territorio, nella delegazione di Viterbo oltre il 50%, ma entro i confini comunali di Bagnaia, Barbarano Romano, Bieda, Vetralla e Viterbo si oltrepassava l’85% che diventava il 97,8% per il solo Capoluogo8.

Nelle Marche, poco dopo il tramonto del Governo Pontificio, si conteranno 351 Comunanze agrarie e 22359 terreni a dominio collettivo9.

A gestire precedenze e assegnazioni erano in molti casi preposte delle associazioni agrarie, che difendevano e regolamentavano i diritti acquisiti con appositi statuti, andavano sotto i nomi di Comunanze, Comunità, Università. Erano queste istituzioni a garantire che il paesaggio agrario non si tramutasse in un brulichio di armenti, a evitare soprusi e sopraffazioni e soprattutto a difendere accanitamente un uso, che permetteva di sfamare migliaia di bocche, favorendo il sorgere di un senso di appartenenza e di tutela del bene comune di un territorio.

Nei secoli XVIII-XIX, sull’onda delle nuove teorie illuministiche e liberali sull’economia, si fece strada l’idea dell’abolizione degli usi civici, a vantaggio del godimento esclusivo del proprietario10. Nello Stato della Chiesa le novità si limitarono a stimolare un dibattito e indussero Pio VII a varare delle riforme nel campo dell’agricoltura e del commercio dei grani; Papa Chiaramonti, nell’affrontare l’argomento, agì sempre con la prudenza necessaria nei cambiamenti, per non correre il rischio, disse il contemporaneo Duca Odescalchi, « di variare un sistema secondo il quale già da tanto tempo pacificamente si regola la coltivazione delle province suburbane, e di spogliare molte comunità e molti baroni di un diritto, forse nocivo al ben pubblico, ma che essi hanno acquistato nelle maniere le più legali o dal principe o da chi prima di loro lo godeva »11. Il Petronio commenta: « in questo modo si cercava di coniugare insieme rinnovamento e conservazione, esigenze produttivistiche e garanzia degli assetti costituiti »12.

Nella prospettiva di incoraggiare una più intensa coltivazione cerealicola, in terre ad essa vocate, andava la Notificazione del 1849, ma anche questo provvedimento, moderatamente innovativo (la cui applicazione, oltre ad essere facoltativa, non penalizzava eccessivamente le comunità, garantendo ai fruitori degli usi civici, corrispettivi in terreno a risarcimento di quanto perdevano)13, non sortì grandi effetti se nel 1884, dopo una statistica nei territori ex pontifici, la situazione parve, secondo l’opinione di un ministro liberale, sconfortante14.

Per analizzare il fenomeno bisogna valutare che il Governo Pontificio era stato estremamente sensibile alle rimostranze delle popolazioni e quando, come in questo caso, le associazioni dei contadini delle comunità avevano fatto appello alla benevolenza pontificia, perché fosse rivista la legge, il Papa ne aveva rallentato l’applicazione « al timore che le popolazioni rurali venissero a trovarsi prive dei mezzi di sussistenza minimi »15. A confermare l’analisi è, nel 1887, il deputato Giovanni Zucconi sicuramente non sospettabile di simpatie papaline16.

A farsi di certo meno scrupoli e a dare uno scossone a usanze di secoli, ci pensarono i Parlamentari Italiani dopo l’Unità: le istanze del capitalismo liberale di fine Ottocento scardinarono l’assetto agrario e sociale dei territori non più pontifici.

Il 27 aprile 1888 si approvò una legge che si rivelò « fallimentare e dannosa (“legge di classe perché a tutto vantaggio dei proprietari”…) e suscitò violente reazioni contadine a causa degli indennizzi troppo bassi, quasi mai concessi in terreni, e per la non prevista possibilità di affrancazione a favore degli utenti »17. Degli antichi usi civici si mantenevano solo delle modeste reliquie, in compenso si esasperava il disagio sociale18, creando di fatto un terreno favorevole all’emigrazione e al nascente social-comunismo.

In Parlamento, in difesa dei meno fortunati, si era persino levata la voce dell’onorevole Franchetti. Egli, il 15 dicembre 1887, si infervorò in difesa dei diritti delle associazioni agrarie e si scagliò contro i suoi colleghi dicendo che la « scuola economica classica (…), ferma alla sua unica distinzione fra capitalisti e lavorator i»19 provava – riferiscono gli Atti parlamentari – « un’antipatia istintiva per enti ibridi, come le università degli utenti, nelle quali l’individuo sparisce ed il cui scopo è assicurare un beneficio ad una categoria di persone come tale » e nella disperata difesa di quelle “Corporazioni dei poveri” affermò: « è una vera spogliazione quella che voi consumate con questa legge: voi potete bensì trovar modo di indennizzare i singoli utenti come individui, ma come classe essi rimangono spogliati; si tratta di una categoria di persone che con i mezzi ordinari non ha modo di nutrirsi, che trova in questa ricchezza comune del paese un supplemento di mezzi di sussistenza, che le impedisce di morire di fame. Voi le togliete questo beneficio e togliendolo non le date nulla in corrispettivo. E quando anche voi abbiate compensato gli attuali utenti dei diritti che abolite, avrete creato per le generazioni future una classe di proletari che adesso non esiste »20.

I Sodalizi dell’Urbe a difesa delle categorie sociali

Le vie di Roma e le piazze, risparmiate dalle demolizioni postunitarie e del Ventennio, sono ancora oggi testimoni di una realtà sociale che si esprimeva anche nell’urbanistica. I palazzi dei principi romani si confondono con le casupole dei popolani, intervallati spesso da una cappella o un oratorio dove persone di ogni estrazione si trovavano in date e scadenze particolari per solennizzare una festività, per celebrare il patrono celeste di una categoria di lavoratori, per assistere spiritualmente ed economicamente poveri, carcerati e condannati a morte o per ricordare una data importante che riportava alla mente la patria lontana.

Le confraternite erano numerosissime, potevano essere associazioni di connazionali o di mestiere, dedite a pratiche di pietà o di assistenza, talora caratterizzate da un autentico spirito di corpo che, nel temperamento romano, si tramutava anche in innocente rivalità. Tutti, nobili e plebei, ecclesiastici e bottegai potevano indossare una eguale divisa e un unico emblema, distinti soltanto dai segni delle cariche da ciascuno ricoperte all’interno del sodalizio.

Tracciare la storia di tutte le confraternite romane è arduo lavoro, ma accennare alla loro attività è importante per comprendere la quotidianità di un mondo, che si esprimeva nella coralità di un popolo.

Le teorie sull’origine delle confraternite sono discordi, chi le fa risalire agli albori della civiltà, chi ne colloca i primi vagiti al termine dell’ epoca apostolica, chi ne associa la nascita ai collegia funeraticia (associazioni riconosciute dall’autorità romana che, in quanto proprietarie dei sepolcri, garantivano ai propri iscritti il diritto ad una sepoltura privata), chi ritiene sia ragionevole parlarne solo a partire dal Medioevo inoltrato.

Raramente si nega la loro attività in ambito caritativo e assistenziale, ma sovente si misconosce o si ignora la funzione di tutela giuridica e amministrativa rivolta a categorie sociali o nazionali. L’importanza che esse ebbero in antico regime non ha attratto l’interesse degli storici come meriterebbe, anche perché quella che era spesso una caritatevole influenza presso i potenti più che un’ingerenza nell’amministrazione, per sua natura lascia minor traccia negli archivi.

Non va dimenticato con quanta irruenza si manifestò l’ascendente di queste corporazioni sulla scena politica romana alla morte di Cola di Rienzo nel 1354. Roma era precipitata nelle lotte civili, che vedevano protagonisti i membri del baronato; con una risolutezza esemplare intervennero i membri della Compagnia dei Raccomandati della Santa Vergine che, forti di un consenso e una stima incondizionata da parte del popolo romano, pacificarono la città, imponendo come Governatore del Campidoglio Giovanni Cerrone e sottoponendo al Papa (allora ad Avignone) la ratifica della nomina21.

Queste aggregazioni ebbero sempre la considerazione della popolazione, e nei momenti più gravi, forti di quel menzionato spirito di corpo, fecero pesare la propria influenza sui potenti di turno, costituendo, nei momenti di smarrimento e disordine, un forte richiamo alla concordia cittadina. Ad ulteriore conferma dell’importanza del ruolo ricoperto negli stati cattolici d’antico regime, si ricorderà che le confraternite condivisero, costantemente, insieme agli Ordini Religiosi, l’odio dei rivoluzionari, i nemici del trono e dell’altare individuarono sempre in entrambi un pericoloso nemico; ovunque arrivassero illuministi o giacobini in erba, fossero nella Toscana Leopoldina o nella Francia del Terrore, si assisté ad una persecuzione contro i sodalizi, fatti oggetto di un livore che si riserva solo ai peggiori avversari.

Nella Roma papale l’aggregazione confraternitale era tanto rilevante da raccogliere e tutelare sotto lo stesso vessillo tutti coloro che immigravano nella capitale della Cristianità dalle varie parti del mondo. Le cosiddette confraternite nazionali permettevano, a chi aveva una comune provenienza, di festeggiare ricorrenze particolarmente care con i propri conterranei, di osservare le proprie tradizioni e, nella città del latino, di mantenere l’uso della propria lingua.

Nacquero allora l’Arciconfraternita dei Santi Ambrogio e Carlo dei Lombardi ma distinti dai Bergamaschi22 o quella di S. Girolamo degli Schiavoni che proteggeva gli esuli slavi dell’invasione turca; si svilupparono quelle di S. Andrea dei Borgognoni, di S. Giuliano dei Belgi, di S. Ivo dei Bretoni, del Santissimo Sudario dei Piemontesi, dello Spirito Santo dei Napoletani, prosperarono quelle dei Lucchesi, dei Siciliani, degli Spagnoli.

Le franchigie concesse giungevano al punto che un condannato a morte forestiero, poteva far ricorso al sodalizio della propria nazione, perché quest’ ultimo si interessasse di procurare la grazia; la confraternita di San Benedetto e Santa Scolastica « sorta per utilità dei Nursini abitanti a Roma»23 aveva il privilegio di liberare un condannato a morte originario della diocesi umbra. Norcia giaceva peraltro in territori pontifici ma, come detto nel capitolo precedente, le comunità dello stato avevano un “trattamento diplomatico” simile a quello riservato ad altri stati sovrani.

I Nursini non erano gli unici sudditi pontifici a godere del privilegio di una confraternita nazionale: i Bolognesi si riunivano sotto la protezione dei Ss. Petronio e Domenico, i Marchigiani invocavano la Madonna di Loreto, i Casciani veneravano Santa Rita, i Camerinesi avevano la chiesa dei Ss. Venanzio e Ansovino, sulle cui mura campeggiava l’epigrafe Nationis Camertium.

Le confraternite avevano condiviso con le corporazioni medievali la difesa delle prerogative di alcune categorie di lavoratori e, specie nella capitale, ne avevano ereditato e sviluppato la funzione. Pressoché tutti i mestieri avevano la propria aggregazione che veniva affidata alla protezione di un Santo; i lavoratori erano così uniti e difesi, coniugando pratiche di pietà a spirito di appartenenza. Attivissime erano le Arciconfratemite di S. Maria della Quercia dei Macellari, di S. Eligio dei Ferrari, o di S. Gregorio dei Muratori, ma anche i mestieri meno diffusi vantavano un sodalizio, come quello di S. Barbara dei Bombardieri, i cui membri, in uno stato pacifico, erano più impegnati a salutare le processioni con salve di cannone, che a sparare sugli eserciti; si distingueva anche la Confraternita e Università della SS. Annunziata dei Cuochi e Pasticceri, o la Confraternita degli Stampatori posta sotto la protezione dei Dottori della Chiesa o quella dei Garzoni dei Sarti, distinta da quella dei Sarti, o la Confraternita di Ss. Biagio e Cecilia dei Materassai dove « coloro che al di fuori della confraternita avevano posizione preminente, nell’ambito dell’organizzazione gerarchica del sodalizio potevano trovarsi in sott’ordine ad un dipendente della propria bottega »24.

Non mancavano le Università e Collegi dei Pollivendoli, dei Tessitori, dei Maccaronai, dei Vaccinari, dei Pizzicaroli, degli Ortolani, dei Sensali di ripa25, dei Costruttori di barche, dei Pescivendoli o quella dei Pittori e Scultori, poi divenuta Accademia di S. Luca, il tutto a dimostrare come l’immagine di una Roma città di parassiti, vivesse solo nella pubblicistica protestante.

S. Filippo Neri, “il terzo apostolo di Roma”, fondava nel 1536 un sodalizio che si occupava dell’assistenza ai pellegrini giubilari: l’Arciconfratemita della SS. Trinità dei Pellegrini e Convalescenti. Nella sua sede del rione Regola, si vedevano Principi e Cardinali lavare i piedi gonfi dei pellegrini, o mendicare pane e vino pei poveri, a volto scoperto e senza cappuccio, come straordinario esercizio di umiltà riservato ai primi cittadini di Roma. Nel giubileo del 1575 l’Arciconfraternita ospitò 144913 pellegrini continuando a curare i suoi 21000 convalescenti, con 365000 pasti offerti, servivano a tavola il vincitore di Lepanto principe Marc’Antonio Colonna e il Papa stesso. Si inaugurò una gara di carità tra la nobiltà romana e nel 1649 il principe Ludovisi diede « trattamento pubblico a 12.000 donne »26. Di attenzioni speciali godevano i pellegrini provenienti dall’India, dall’Armenia, dalla Siria, i quali dopo i disagi del lungo viaggio trovavano nell’Urbe calorosa accoglienza.

Una parte di quello che oggi viene definito “stato sociale” era a carico delle Confraternite, che assolvevano egregiamente ai propri compiti, se la capitale dello Stato Pontificio vantava un ospedale ogni 9363 abitanti quando Londra ne aveva uno ogni 4073727.

L’Arciconfraternita dei Ss. Dodici Apostoli, amata da S. Ignazio di Loyola, aprì, per volere del Cardinal Barberini, una farmacia che distribuiva farmaci a quanti presentavano un certificato del parroco attestante la povertà.

Lo Stato non disdegnava di cedere una fetta di sovranità, quando lasciava che la gabella sulla legna e la tassa di bollo sulle carte da gioco, venissero riscosse dagli amministratori della Confraternita di S. Elisabetta, essa era responsabile della gestione del grande ospedale di S. Sisto. Per sostenere le spese della struttura uno zoppo girava per la Città appoggiato a un cieco, entrambi chiedevano le elemosine e, ricevuto l’obolo, in una Roma cattolica ma non ottusamente moralista, si porgeva all’oblatore una presa di tabacco da fiuto su un bacile d’ argento28.

I carcerati avevano per patrona l’Arciconfraternita di S. Girolamo della Carità; recitano gli statuti: « per cura di tutti i carcerati il sodalizio stipendi un medico un chirurgo un barbiere per medicarli e soccorrerli nelle loro naturali malattie »; era compito dei confratelli vigilare sulla qualità del vitto e sulla quantità di carne somministrati ai detenuti, veniva nominato un prelato che, senza intervento dei giudici, potesse far loro visita e portare le confidenze della famiglia29.

La confraternita dei Sacconi Rossi si occupava di recuperare i morti annegati nel Tevere e di dar loro sepoltura a proprie spese, condividendo la pia opera coi confratelli di S. Maria ad Orazione e Morte; in occasione di una piena del fiume i confratelli giunsero fino ad Ostia per raccogliere i corpi trascinati dalla corrente e preservarli dall’oltraggio degli animali, ma, poiché i bisogni non sono solo di ordine naturale, la Compagnia soccorreva anche le anime di chi aveva trovato senza vita, facendo celebrare messe in suffragio di quegli sconosciuti malcapitati.

Anche per le confraternite, l’Unità d’Italia, fece suonare le campane a morto. Il 18 febbraio 1890 un parlamentare diceva: « non perderò molte parole riguardo alle confraternite e altre istituzioni consimili. Non si può riconoscere un carattere di utilità pubblica in enti che, salvo poche eccezioni, hanno per fine lo spettacolo di funzioni religiose, causa ed effetto di fanatismo e di ignoranza, di regolare il diritto di precedenza nelle processioni, di difendere le prerogative di un’immagine contro un’altra, di stabilire il modo e l’ora delle funzioni, di regolare il suono delle campane; lo sparo dei mortaretti e via dicendo. Sono continui e gravi gli inconvenienti di ordine morale, politico e sociale a cui esse danno luogo nell’ esercizio della propria azione. Sono in una parola più dannose che utili alla società »30. La legge sulla soppressione fu approvata il 20 luglio 1890, condannando 11707 Confraternite31. Lo Stato cancellava l’impronta cattolica dalla pubblica assistenza, si impadroniva di ospedali, chiese e arredi, disperdeva un patrimonio artistico e storico di innegabile rilievo; Luigi Huetter, storico e cantore di quella Roma che era stata condannata alla sparizione, in merito alla soppressione di questi antichi sodalizi, scrisse: « avevano avuto abilità e bellezza incontestabile. Dinanzi alla legge avevano interpretato spesse volte il buon senso popolare. Contro la bestemmia ed il delitto significavano preghiera, fede, sacrificio. Nell’urto delle fazioni, di mezzo ai potenti oppressori, ritenevano ogni classe sociale sotto un identico stendardo davanti il comune altare. L’esteriorità stessa appariva consona a quei tempi. Quegli incappucciati litanianti a lume di torcia facevano colpo sugli animi semplici. Tutti piegavano il ginocchio davanti ai fratelli ignoti. Questo arcano religioso in cui il dolore e la Morte prendevano parte sì grande lasciava negli spiriti un po’ di dolcezza, faceva balenare un viaggio di speranza. Ma la mentalità liberale tenne a sostenere che, fossero buone o cattive le confraternite, i tempi mutati ne reclamavano la scomparsa»32.

La fine dello “Stato per corpi intermedi”

Lo Stato della Chiesa, “odiato e calunniato” quanto il suo ultimo Papa Re, formatosi nei secoli quando le rovine di Roma erano ancora fumanti, disteso dal Po al Liri, aveva dato a Roma la grandiosità delle basiliche e l’intimità dei suoi rioni, alla porzione amministrata del Belpaese, un paesaggio agrario e un reticolo di città ineguagliabile; giunto al suo crepuscolo consegnava alla nuova Italia le tradizioni comunali, che un’amministrazione centralista avrebbe travolto e una società ordinata “per corpi intermedi”, che aveva affascinato i viaggiatori del Grand Tour per la sua armonia.

All’ingresso dei Bersaglieri è noto che Roma rimase immobile, attonita, incredula. Dopo pochi giorni i nuovi barbari, i “buzzurri” come verranno definiti dal popolo romano i liberali sopraggiunti, si avviavano a scalpellare gli stemmi pontifici, a sventrare il centro storico, a demolire chiese e palazzi, a coprire l’antico tempio dell’Aracoeli con la mole bianca del Vittoriano, perché lo sfondo prospettico di Via del Corso non fosse un edificio cristiano. Sui ruderi della Roma dei Cesari e sul tessuto urbano della Roma papale, si vagheggiava la costruzione, di mazziniana memoria, della “terza Roma”, per edificare la quale bisognava produrre abbondanti rovine.

La distruzione dell’antica concezione di sovranità non risparmiò nessun aspetto del vivere comune; in passato nello Stato Pontificio, l’imperativo era stato la costruzione della Civitas Christiana, nel rispetto delle preesistenze e dei diritti acquisiti, ora l’unico credo era l’idolatria dello Stato.

In nome del cosiddetto bene pubblico i poteri dei governanti si dilatavano a dismisura, i parlamentari si arrogavano il diritto di sopprimere gli Ordini religiosi e Confraternite, di negar loro il diritto a possedere; le esangui casse del governo italiano venivano ristorate con la rapina dei beni della Chiesa e dei poveri; le stesse tavole rinascimentali e le tele dei grandi maestri, strappate dai loro luoghi d’origine, prendevano la via del mercato antiquario, perché non testimoniassero in ogni angolo del Paese quel secolare legame tra la religione cattolica e la committenza artistica, tra le autonomie locali e la passata prosperità; il popolo doveva cambiare usi e tradizioni per regio decreto: non più processioni o feste popolari ma solo ricorrenze di improbabili eroi risorgimentali. Così si veniva imponendo lo “stato nuovo”, ovvero quello meglio governabile dai despoti perché disorientato e senza radici.

1M. CaffieroL’erba dei poveri. Comunità rurale e soppressione degli usi collettivi nel Lazio (secoli XVIII-XIX), Roma 1982, pp.19 e sgg. Il testo si segnala per il lavoro di ricerca svolto e per alcune interessanti osservazioni di storia economica e sociale, tenendo conto dell’orientamento dell’A. molto distante dal nostro.

2 J. C. Maire VigueurComuni e Signorie in Umbria Marche e Lazio, cit., p. 332.

3A.A. Bittarelli, L’economia integrata silvo-pastorale-boschivo-laniera nagli usi civici del 1353 e negli statuti del 1654 a Bolognola, in “Atti e memorie della deputazione di storia patria per le Marche”, ser.VIII,IX, 1975 pp. 315 e ss.

4 J.C. Maire VigueurComuni e Signorie in Umbria Marche e Lazio, cit., pp. 332-333.

5 Ivi, p. 333.

6 Ivi, pp. 334, 335.

7 M. Caffiero, cit., pp. 19-20.

8 Ivi, pp. 20-21.

9M. S. CorciuloIl dibattito parlamentare sulla legge 24 giugno 1888, inP. Falaschi (a cura di) Usi civici e proprietà collettive nel centenario della legge 24 giugno 1888, Atti del convegno in onore di Giovanni Zucconi (1845-1894), Camerino 1991, p. 95.

10 Dal 1776 nel Granducato di Toscana la legislazione leopoldina aveva avviato un forte ridimensionamento degli usi civici che proseguì anche nel secolo seguente. Cfr. L. Acrosso-G. Rizzi, Codice degli usi civici, Roma 1956, pp. 533 sgg.

11B. Odescalchi, in ASRm (Archivio di Stato Sez. di Roma), Congregazione economica, 68/3 citato in U. Petronio, Qualche spunto sulla questione demaniale in Italia prima della legge Zucconi, inP. Falaschi (a cura di) Usi civici e proprietà collettive nel centenario della legge 24 giugno 1888, Atti del convegno in onore di Giovanni Zucconi (1845-1894) , cit., p. 68.

12 U. Petronio, cit., p. 68.

13Cfr. Acrosso-Rizzi, cit., p. 496 e ss. Il testo può essere consultato anche per la legislazione della Repubblica Romana in materia di usi civici, in particolare per il decreto del 3 febbraio 1849; la più cauta Notificazione di Pio IX è del 29 dicembre 1849.

14Per un’analisi della posizione di Bernardino Grimaldi, convinto fautore dell’ abolizione degli usi civici e ministro dell’ agricoltura nel Governo Depretis, cfr. P. Grossi, Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica post-unitaria, Milano 1977, passim.

15 M. S. Corciulo, cit., p. 87.

16 P. Falaschi (a cura di), Usi civici e proprietà collettive nel centenario della legge 24 giugno 1888, Atti del convegno in onore di Giovanni Zucconi (1845-1894) , cit., passim.

17 M. Caffiero, L’erba dei poveri, cit., p. 113, nota 50.

18Sulla situazione dei contadini nel Lazio dopo l’Unità, cfr. A. CaraccioloIl movimento contadino nel Lazio (1870 -1922), Roma 1952G. PescosolidoUsi civici e proprietà collettive nel Lazio dalla Rivoluzione Francese alla legislazione dello stato italiano, in “Nuovi Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina”, 5 (1987).

19 M. S. Corciulo, cit., p. 93.

20 Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Legisl. XVI, II sessione, 1886 – 87 citati in M. S. Corciulo, Il dibattito parlamentare sulla legge del 24 giugno 1888, cit., pp. 93, 94.

21Statuti della Ven. Arciconfratemita del Gonfalone, tipografia poliglotta della S.C. di Propaganda Fide, Roma l888; cfr. anche E. Dupré Theseider, Roma dal comune di popolo alla signoria pontificia, (1252-1377), Istituto di studi romani, storia di Roma XI, Bologna 1952.

22 I Bergamaschi erano riuniti nella Confraternita dei Santi Bartolomeo e Alessandro.

23 M. Maroni Lumbroso, A. Martini, Le confraternite romane nelle loro chieseRoma 1963.

24 Ivi, pp.74-75.

25Mediatori nel commercio dei prodotti che giungevano a Roma per via fluviale; si ricorda il rilievo economico dei porti tiberini di Ripetta e Ripa Grande, entrambi scomparsi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo seguente.

26 Cenni storici sulla Ven. Arciconfraternita della SS Trinità de’ Pellegrini e Convalescenti di Roma, Roma tipografia F. Caputi,1917; M. Maroni-Lumbroso, A. Martini, cit., p. 427.

27 V. Faraoni, A. Mencucci, Vita del venerabile Pio IX, Roma 1952.

28 M. Maroni Lumbroso, A. Martini, cit., pp.143,144.

29 Ivi, pp.149-154. ,

30L. Huetter, Le Confraternite. Misteri e riti religiosi delle pie associazioni laiche di Roma dalle origini a oggi (ristampa a cura di D. Paradisi), Roma 1994, pp.34-35.

31 Ivi, p. 34.

32 Ivi, p. 36.