“L’uomo che ha creato l’armonia; che ha fatto cantare gli esseri umani come nessun altro” (Franco Zeffirelli)
Platone sosteneva che il corpo, ossia gli istinti e le intemperanze, fossero un ostacolo per l’anima al fine di raggiungere la perfezione. L’anima caduta nel corpo è stata risvegliata dalla bellezza (l’amore). Quest’ultima è in grado di stupirla e riaccendere in lei il ricordo delle cose perdute, colmandola di saggezza e di bontà. Ecco, Puccini è stato un uomo di istinto e di notevoli intemperanze, e pure di amore.
Una musica che si nutre degli ideali del suo tempo, gli ideali di una gioventù che ha saputo immaginare un futuro libero all’insegna del riscatto dell’unità d’Italia. Puccini nasce infatti in pieno Risorgimento, vive la sua vita nell’Italia post-risorgimentale e morirà nella piena ascesa del fascismo. La sua identità ha saputo tuttavia oltrepassare i suoi tempi. È il primo a comprarsi un fonografo Edison; è il primo ad avere le automobili più all’avanguardia; è il primo a circondarsi di tutte le scoperte del suo tempo. Realizzò inoltre due documentari sulla sua vita quotidiana (di quando caccia per esempio), poiché il suo desiderio era quello di proiettarli nei teatri prima dell’esecuzione delle sue opere, affinché tutti guardassero la vita semplice di un compositore.
Giacomo Puccini nasce a Lucca il 22 dicembre 1858 da Michele Puccini e Albina Magi. Da quattro generazioni i Puccini (Giacomo, il trisnonno; Antonio; Domenico; Michele) sono direttori d’orchestra o musicisti a Lucca. All’età di cinque anni Giacomo perde il padre e nello stesso anno nasce il secondo maschio della famiglia, Michele. La storia del fratello minore è ahimè molto triste poiché prova anch’egli a seguire la carriera musicale, senza mai trovare soddisfazione o celebrazioni. Fu così che si trasferì nel 1889 in Sudamerica. E siccome questa sembra un po’ una storia come “In morte del fratello Giovanni” di Foscolo, i due fratelli non si rivedranno mai più; Michele morirà di febbre gialla a Rio de Janeiro.
Nel 1880 Puccini ha ventidue anni e anche lui, come il padre, sembra destinato a diventare maestro di cappella del Duomo di Lucca. Tuttavia, quattro anni prima, si reca a piedi a Pisa per assistere all’Aida di Verdi (magari non vi dice nulla, ma se vi ascoltate la “Marcia Trionfale”, fidatevi che la conoscete l’opera). Lì Puccini ha una folgorazione: quella del teatro musicale, dell’opera.
Vorrebbe studiare a Milano, ma mancano i soldi. La madre Albina scrive addirittura alla casa reale. Sarà la regina Margherita a concedere una borsa di studio di cento lire mensili, anche grazie all’intervento della marchesa Pallavicini e della duchessa Carafa. Ammesso agli studi con punteggio di 8,38 su 10, si forma al conservatorio meneghino. Qui Puccini sarà allievo di Antonio Bazzini (che a sua volta fu allievo di Paganini; sapete quello del “Paganini non replica”?), e sarà lui il primo a suggerire al giovane l’idea della Turandot (vi scongiuro, non leggetelo alla francese; la “t” finale va scandita!). Sarà anche allievo di un altro musicista del suo tempo: Amilcare Ponchielli. Magari anche questo nome non vi dice niente, ma se qualcuno di voi ha visto il capolavoro Fantasia di Walt Disney ricorderà la sequenza la “Danza delle ore”, il balletto dove danzano lo struzzo, gli ippopotami e gli alligatori. Se ve lo siete ricordati, quello era Ponchielli e il balletto è tratto dalla sua opera più famosa, La Gioconda. Compagno di conservatorio è un giovane livornese che si chiama Pietro Mascagni, futuro compositore e autore della Cavalleria Rusticana (se siete amanti del cinema, è l’opera con cui si conclude “Il Padrino – Parte III”). Il 13 luglio 1883 l’opera del Capriccio sinfonico, composta da Puccini come compito d’esame finale viene eseguita dal maestro Franco Faccio. Il 16 luglio si diploma con punteggio di 163 su 200.
Sebbene Ponchielli lo ricorda come uno dei suoi migliori studenti, lo riprenderà molte volte per la sua disordinata grafia e per il mancato rigore matematico. È lo stesso Ponchielli a presentargli il poeta scapigliato Ferdinando Fontana. Fontana sarà il librettista della prima vera opera di Puccini, Le Villi. Presentata in Aprile ad un concorso indetto dall’editore Edoardo Sonzogno (ricordatevi questo nome), non ottiene nessun riconoscimento. Alcuni dicono che fu scartata per l’orrenda calligrafia del lucchese negli spartiti; altri sostengono invece che fosse opera dell’editore Giulio Ricordi, il quale voleva il giovane compositore nella sua scuderia e che quindi corruppe la commissione al fine di scartarlo. La Casa Ricordi era il traguardo più ambito di ogni musicista; considerate che fu la famiglia Ricordi a fare la musica in Italia promuovendo artisti come Rossini, Bellini, Donizetti e per ultimo Giuseppe Verdi. Se Puccini era affranto per l’esito della sua opera, non era dello stesso avviso Fontana che la reputava vincente; convinse quindi il compositore a metterla in scena. L’opera fu promossa dallo stesso Giulio Ricordi ricevendo un’accoglienza entusiastica dal pubblico e dalla critica.
È in questo periodo che Puccini comincia a frequentare di nascosto Elvira Bonturi, donna di Lucca sposata con Narciso Gemignani. La donna tuttavia rimane incinta e quando giunge per lei il momento in cui non può più nascondere la gravidanza al marito, fugge insieme a Giacomo a Monza, in una casa trovatagli da Fontana. Elvira aveva cercato rifugio nelle colline brianzole onde evitare che Narciso potesse venire un giorno a reclamarla con la forza; o che quest’ultima potesse addirittura venire arrestata come adultera per abbandono del tetto coniugale. Puccini chiede pure nelle sue lettere ai familiari di imbucare la corrispondenza alla stazione di Lucca, dove la cassetta veniva svuotata dal personale ferroviario (ritenuto meno incline ai pettegolezzi dei postini di Lucca). E così per due anni, fra il 1886 e il 1887 vissero clandestinamente. Furono anni difficili e di estrema povertà; i fasti e il successo che avrebbero arriso a Puccini erano ancora là da venire. Tanto più che c’era da sfamare Fosca, la prima figlia di Elvira con Gemignani, e il piccolo Tonio, che sarà l’unico figlio di Puccini. Il compositore, che nel frattempo stava lavorando all’Edgar, si era ridotto a suonare per le ricche famiglie brianzole. Dieci anni più tardi, in una lettera che ricorda un po’ Rino Gaetano quando canta “non c’erano soldi, ma tanta speranza”, scrive alla sua “Topisia”, nome affettuoso con cui chiamava la sua Elvira: “Ricordi quel rigido inverno che ci faceva battere i denti? Quelle lunghe notti in cui tutt’e quattro dormivano nel letto grande per scaldarci? Bei tempi quelli! Indimenticabili, quando pareva che tutta la vita ci sorridesse intorno e il mondo fosse tutto bello. Ho nostalgia di quei giorni così gelidi, ma mai più così caldi”. Forse in queste parole sta il segreto della bellezza di Puccini.
Nel 1889 Edgar, firmata dalla coppia Puccini-Fontana, viene rappresentata per la prima volta il 21 aprile al Teatro alla Scala di Milano. L’opera non ottiene l’apprezzamento del pubblico e dopo la terza rappresentazione viene ritirata. Puccini è fortemente abbattuto per il risultato del suo lavoro. Se Verdi era stato l’anima del Risorgimento, Puccini come sarebbe stato ricordato? Giulio Ricordi descrisse così il clima di quell’esito: “La critica milanese si scagliò con grande severità contro il libretto, e se fu più mite col musicista, riconoscendone tutto l’ingegno, ne accolse però il lavoro in modo tale che, ove il Puccini non avesse fortissima fibra d’artista potrebbe concludere col dire: cambiamo mestiere. Ma queste severità della critica, talvolta così benigna cogli ingegni mediocri, non devono affatto scoraggiare il giovane maestro”. Giulio Ricordi fu, in un certo qual modo, un padre per Puccini. Aveva capito che lui sarebbe stato l’erede di Verdi. Dopo averlo rincuorato, anche grazie alle parole di stima che il maestro Faccio aveva scritto al compositore circa la sua opera, lo mette a lavoro insieme ai due migliori librettisti del tempo: Luigi Illica e Giuseppe Giacosa.
Inizia adesso quella che è la seconda produzione dell’artista. Una produzione più matura, dove Puccini riprende il sinfonismo di Wagner, ma aggiunge caratteri di Debussy, Strauss, Schönberg. Nel 1893 esce Manon Lescaut al teatro Regio di Torino; è il suo primo grande successo (John Williams, celebre compositore di numerose colonne sonore cinematografiche, si sarebbe ispirato all’intermezzo del III atto per comporre il celebre tema di Star Wars). Scrive un giornalista della Gazzetta del Popolo: “L’eco delle ultime note dell’orchestra, epilogo del dramma passionale, umano, si è ormai perduta, ed io sono qui, confuso, intontito, sbalordito, e ciò che più importa profondamente commosso: commosso fino alle lagrime. E non sono il solo. Con me ha pianto il pubblico, e confessano d’aver pianto critici musicali torinesi, conosciuti per il loro riserbo e la loro freddezza. Domattina lo confesseranno essi stessi nel loro giornale”. La Gazzetta Piemontese: “Le ultime parole di Manon implorano dal cielo l’oblio delle sue colpe e richiamano nell’orchestra il tema del minuetto del secondo atto che quasi più non si riconosce tanto è cupamente funebre. Manon muore. Di nuovo le quattro battute dell’introduzione, nella identica tonalità, ritornano a richiamare l’idea dell’infinito. E la parentesi è chiusa e l’opera finita. Ma non finisce così presto l’ovazione del pubblico. L’entusiasmo sale ad un livello altissimo: si grida, si urla, si vuole il Puccini”.
Con il trionfo della nuova opera le disponibilità economiche di Puccini cominciano ad aumentare e decide così di comprare una casa presso il lago di Massaciuccoli, località che verrà rinonimata in seguito Torre del Lago Puccini. Adesso il compositore ha sostanzialmente tre case: la casa di Lucca, quella di Milano e Torre del Lago. Ma è in quest’ultima proprietà dove preferisce passare la maggior parte del suo tempo e dove si circonda di gente semplice. Era questa la residenza dove riuscire a ricaricare le batterie dopo le fatiche del lavoro. Tra la gente semplice aveva pure inventato nel 1896 un circolo ricreativo chiamato Club La Bohème; in buona sostanza, un ritrovo di bontemponi accomunati dalla passione della caccia, della pesca, del bere. Vengono anche stabiliti dei comandamenti fra i soci: “I soci del Club La Bohéme giurano di bere bene e di mangiare meglio”. E proprio Torre del Lago è il luogo dell’anima di Puccini. Non senza mancare di prendere in giro qualche amico. Una volta raccontò ad un cacciatore di aver visto in mezzo al bosco un animale leggendario, l’antilisca, tanto che il cacciatore si volle far portare nel punto dove Puccini lo aveva avvistato. Morale della favola: il cacciatore rimase per ore in mezzo al bosco ad aspettare il fantomatico uccello.
È il marzo del 1893 quando Giacomo Puccini incontra Ruggero Leoncavallo (probabilmente non vi dirà molto il suo nome, ma avete sicuramente ascoltato i suoi versi “Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto!”) in un caffè di Milano. Parlando, i due compositori scoprono di star lavorando allo stesso progetto, un racconto di Henri Murger che narra episodi di vita di giovani bohémiens. Inizia così una querelle documentata dai quotidiani del tempo, che si conclude con Puccini che scrive: “Egli musichi, io musicherò. Il pubblico giudicherà”, una frase che già racchiude la consapevolezza della futura vittoria. Scrive Fabrizio Datteri nelle sue note allo spettacolo: “Il duello tra i due compositori è impari sotto tutti i punti di vista, ed è solo un particolare il fatto che Leoncavallo completi la sua opera un anno più tardi del rivale: Puccini dimostra tutto il suo genio musicale, coadiuvato dalla splendida trasposizione poetica del romanzo di Murger operata da Illica e Giacosa, mentre il compositore napoletano realizza una Bohème non equilibrata, con un libretto debole, da lui stesso curato”. Ma c’è un altro aspetto molto significativo in questa vicenda: il rapporto fra editoria, comunicazione e artista. A un livello parallelo, la sfida si gioca infatti anche fra gli editori Giulio Ricordi (Puccini) ed Edoardo Sonzogno (vi avevo detto di ricordarvi il nome di questo editore; Leoncavallo), e la posta in gioco è altissima: la trasformazione dell’azienda di famiglia in un’industria mondiale, più che la ‘vittoria’ del proprio protetto. La Bohème di Puccini esce nel 1896 al Teatro Regio di Torino. È subito trionfo. Fa la sua comparsa come direttore d’orchestra un giovanissimo Arturo Toscanini che instaurerà una grande amicizia col compositore lucchese.
Si ritira ufficialmente a Torre del Lago dove porta con sé anche Illica e Giacosa per lavorare al libretto e alla musica di Tosca. La nuova opera esce nel 1900 al teatro Costanzi di Roma. Fra il pubblico erano presenti membri del governo, nonché la regina Margherita che Puccini poté ringraziare di persona per il sostegno economico che aveva garantito la sua formazione musicale. Purtroppo la serata non parte sotto buoni auspici. Si era infatti diffusa la voce che un gruppo di anarchici avrebbe fatto esplodere una bomba dentro il teatro. La folla era incontenibile; la ressa era dovuta al voler ascoltare la nuova opera del maestro. Sebbene l’esecuzione si svolse in un clima teso, e sebbene la critica non ne elogiò inizialmente le qualità, ci fu ovazione fra il pubblico.
Nello stesso anno viene invitato a Londra per l’esecuzione di Tosca; qui si imbatté nella Madame Butterfly di David Belasco. Rimane colpito dall’opera e vuole metterla in musica chiedendone i diritti. È nella capitale inglese che Puccini conosce Sybil Seligman amica, confidente e presunta amante del musicista. Sarà l’unica donna alla quale Giacomo confiderà a più riprese di aver pensato al suicidio.
Il 26 febbraio 1903 muore Narciso Gemignani, ed Elvira è ufficialmente vedova. Il 3 gennaio 1904 Puccini ed Elvira si sposano. Il 17 febbraio dello stesso anno, al Teatro alla Scala di Milano, prima rappresentazione della Madama Butterfly (in un episodio de I Simpson, il personaggio di Barney Gumble crea un film sulla sua vita; la colonna sonora è l’aria “Un bel dì vedremo”): un clamoroso insuccesso ed una sola rappresentazione. È ragionevole pensare che la critica milanese, che da un po’ di tempo stava facendo cattive recensioni del compositore, sia il fattore che influenzò il pubblico di Milano. Non a caso l’opera fu un’autentica glorificazione a Brescia, Torino, Genova, nonché in Europa.
Nell’autunno del 1908 scoppia uno scandalo in casa Puccini. La moglie Elvira si convince che il marito ha una relazione con la cameriera Doria Manfredi. Benchè durante i molti anni di rapporto con Elvira è presumibile che Puccini l’abbia tradita, è certo che il musicista mai la tradì con la giovane Doria. Lo scandalo in realtà fu architettato dalla figliastra Fosca che aveva una relazione col librettista di Puccini. Doria li trovò a letto insieme e per non essere smascherata, Fosca chiese che la cameriera fosse cacciata di casa; raccontando per giunta alla madre che era amante del patrigno. Puccini (al quale intanto è stato diagnosticato il diabete) parte in viaggio per lavoro direzione Roma e nonostante avesse preso le difese di Doria, la cameriera venne allontanata da casa. Elvira inoltre andò in giro a raccontare l’accaduto per tutto il paese. Anche i genitori di Doria non credono alla sua innocenza; solo il fratello la difese giurando di uccidere Puccini. Rimasta senza lavoro, screditata, col disonore in casa e l’inferno fuori, Doria si tolse la vita avvelenandosi. Aveva solo quattordici anni. L’autopsia rivelerà poi che la giovane era ancora illibata. Dopo la sua morte, la moglie continuerà a mortificare il marito di essere l’artefice di quella morte e che dovrà portare questo peso sulla coscienza per tutta la vita.
Inizia l’ultima produzione pucciniana, dove interrompe anche il rapporto professionale con i due fedeli librettisti (anche per la scomparsa di Giuseppe Giacosa nel 1906), composta dalle opere: La fanciulla del West (1910), La Rondine (1917), Il Trittico (1918). Lavori questi che non convincono pienamente il pubblico, poiché Puccini abbandona lo stile operistico. Di fatto stava affrontando una profonda crisi professionale e personale. Abbandona il bel canto, i personaggi quasi passano in secondo piano, la forza narrante è affidata all’orchestra.
Puccini diversi anni addietro aveva provato a mettere in scena La Lupa, la celebre novella verista di Giovanni Verga. Ci lavorò per qualche mese abbandonando poi del tutto il lavoro. Ci fu inoltre un tentativo di collazione fra Puccini e d’Annunzio. I due furono avvicinati da Giulio Ricordi che cercava di proporre una coppia vincente sul modello di quella precedentemente da lui creata fra Arrigo Boito e Giuseppe Verdi. Con una differenza che però risulta fondamentale: Boito (che è sia letterato che compositore) si limitò a mettere il suo genio poetico e drammatico al servizio di Verdi, potenziandone la naturale creatività; d’Annunzio, come anche Puccini stesso, voleva essere a comando di tutto. Sebbene coltivassero interessi comuni: il dandismo, i motori, l’arte, vi sono differenze non da poco. D’annunzio era filofrancese e interventista; Puccini filotedesco e neutralista. Ecco quindi che tale collaborazione non avvenne mai o, per meglio dire, non produsse mai risultati. D’annunzio cercava la maestosità nella narrazione ma soprattutto nei personaggi. Puccini resterà sempre l’artista alla ricerca delle grandi passioni amorose nelle piccole anime comuni. Solo in un caso opterà per un personaggio illustre, la principessa orientale della Turandot. Tormentato da un cancro alla gola, si trasferisce a Bruxelles dove viene operato il 14 novembre 1924; sebbene ci fossero stati dei miglioramenti e l’intervento fosse riuscito, il 17 novembre lo coglie un infarto miocardico che non gli lascia scampo. Muore senza vedere completata la sua opera, la Turandot che per tutta la vita ha inseguito, la sua antilisca, senza poterla vedere completata. Altri compositori la completeranno successivamente portandola poi in scena il 25 aprile 1926.
Le donne ritornano protagoniste e personaggi delle sue opere. Tosca, coraggiosa e determinata. Mimì, fragile ma volitiva. Manon, distruttiva e autodistruttiva, “donna leggera e impudente, amante infelice, peccatrice senza malizia”. Butterfly, l’ingenua speranza delusa. Turandot determinata e feroce con quel suo grido di libertà ed emancipazione “Mai nessun m’avrà”. Infine Liù, mite e infelice.