Chi fu Garibaldi? Un negriero, un grande nemico del Meridione,della Chiesa, dell’Italia.
Quando si parla di Risorgimento, di unità politica dell’Italia, l’eroe che viene alla mente è senza dubbio Giuseppe Garibaldi. Per decenni la sua figura è stata celebrata, osannata, sino a farne una sorta di santo laico, da porre sull’altare della patria, a cui dedicare poesie, strade, pazze e statue equestri: al fine di dare, ad un paese che aveva voluto tagliare i conti, in quattro e quattr’otto, col passato, un mito fondativo sufficientemente romantico e affascinante.
Di Garibaldi, il poeta vate Giosue Carducci, cantore dell’Italia mazziniana, e poi di quella crispina e coloniale, scriveva: “Nacque da un antico dio della patria, mescolatosi in amore con una fata del settentrione…”.
In verità il Risorgimento, come notò Gobetti, è stato un tempo senza eroi. “Troppo fumoso e cerebrale Mazzini– scrive Luca Marcolivio, nel suo piacevole “Contro Garibaldi” (Vallecchi)-, troppo machiavellico Cavour, troppo legato alla cattiva fama di casa Savoia Vittorio Emanuele II“. L’unico che “seppe suscitare qualche entusiasmo popolare, anche se dovuto più ai lati spettacolari, pittoreschi e buffoneschi del suo modo di essere e di apparire che non a delle vere qualità di capo”, fu, secondo Indro Montanelli, Giuseppe Garibaldi..
Chi fu veramente Garibaldi? Fino al 1848 la sua vita è poco chiara, perché avvolta nella leggenda. “Da giovane – scrive lo storico Massimo Viglione, nel suo “L’identità ferita” (Ares)- dopo aver partecipato al tentativo mazziniano di invasione del Regno di Sardegna, Garibaldi si mise dapprima a fare il pirata al seguito del bey di Tunisi e poi fu costretto a fuggire in Sudamerica per non finire impiccato. Quindi si coinvolse prima nel furto di cavalli in Perù (dove gli vennero tagliati i padiglioni degli orecchi), e poi praticò la pirateria per il commercio degli schiavi asiatici“.
Un pirata, dunque? La notizia, negata da Phillip K. Cowie, con argomenti piuttosto fragili, è invece confermata da altri storici, come L. Leoni, O. Calabrese, A. Pellicciari, e persino da un agiografo di Garibaldi come Giovanni Spadolini che però, ne “Gli uomini che fecero l’Italia“, vi accenna fuggevolmente senza addentrarsi nelle sue “leggendarie e piratesche imprese in Sud America”.
Più esplicito lo storico del Risorgimento Giorgio Candeloro, che, intervistato su “La Repubblica” del 20/1/1982, fornisce dettagli maggiori: “Comunque Garibaldi, un po’ avventuriero, un po’ uomo d’azione, non era tipo da lavorare troppo a lungo in una fabbrica di candele. Va in Perù, e, come capitano di mare, prende un comando per dei viaggi in Cina. All’andata trasportava guano, al ritorno trasportava cinesi per lavorare il guano: la schiavitù in Perù era stata abolita e il guano non voleva lavorarlo più nessuno. Insomma un lavoretto un po’ da negriero. Era un avventuriero, un uomo contraddittorio, fantasioso, un personaggio da romanzo“.
Negriero, avventuriero, personaggio da romanzo…sino all’impresa dei Mille, che ne fece, appunto, un mito inarrivabile. Ed è quindi giusto, finalmente, rivedere questa storia di “mille eroi” senza macchia e senza paura, e senza soldi, ma armati solo del loro coraggio e di chissà quali ideali, che piegarono da soli il più grande stato italiano, il Regno delle due Sicilie: una favola che non può più essere raccontata. Occorre un po’ di serietà. Da tempo sappiamo bene che Garibaldi non fu affatto il conquistatore straordinario di cui si è a lungo parlato e che il mito della sua invincibilità fu creato ad arte ancora prima che egli ritornasse, dall’America, in Italia. Nella sua spedizione al sud, Garibaldi contò anzitutto sull’appoggio inglese, senza il quale non avrebbe potuto far nulla.
Nel suo “La strana unità” (il Cerchio), Gilberto Oneto ricorda che la flotta da guerra dell’ammiraglio George Rodney Mundy seguì la spedizione garibaldina passo passo. I Mille neppure sarebbero riusciti a sbarcare, senza di essa. Oltre alla flotta che accompagnava tutti i momenti più delicati, a fianco di Garibaldi vi fu una legione di “volontari” inglesi, anch’essi determinanti. Infine, è da considerare l’importanza dei grandi finanziamenti ottenuti da Garibaldi dall’Inghilterra, che gli servirono certamente a pagare gli ufficiali dell’esercito borbonico che, a differenza dei loro soldati, abbandonarono in massa la difesa del regno.
Pier Giusto Jaeger, nel suo “L’Ultimo re di Napoli” (Mondadori), ricorda che Garibaldi non affrontò una sola battaglia di consistenza vera, sino a quella del Volturno, dove ebbe l’appoggio, oltre che degli inglesi, anche dei piemontesi guidati dall’ammiraglio Persano, scesi dal nord più per evitare che le incerte e traballanti conquiste di Garibaldi sfumassero, che per impedire la sua marcia su Roma. E’ proprio Persano, nel suo “Diario”, a fornirci ulteriori testimonianze sulla corruzione e il tradimento come i mezzi principali con cui il Nizzardo ottenne la vittoria. Persano era stato inviato da Cavour in Meridione, come ricorda Angela Pellicciari nell’introdurre il Diario dell’ammiraglio, proprio con lo scopo di “proteggere-tallonare-controllare Garibaldi, organizzare l’invio di uomini e armi che affianchino i Mille, corrompere i quadri della marina e dell’esercito borbonici” (“I panni sporchi dei Mille“, Liberal).
Corruzione e tradimenti: le migliori armi in mano ad un presunto eroe che da solo, con i suoi Mille, non avrebbe fatto assolutamente nulla. Che non dovette neppure affrontare una vera resistenza, dal momento che il re Francesco II, cugino del sovrano sabaudo, era stato convinto a lasciare il paese, rinunciando quindi ad una strenua difesa, anche su consiglio del suo ministro dell’Interno, il traditore Liborio Romano, al fine di evitare lo spargimento del sangue dei suoi sudditi. Si può infine aggiungere che la vittoria di Garibaldi fu ottenuta anche grazie ai suoi proclami, in cui prometteva libertà e terre. Sappiamo bene cosa ne ebbe il Meridione.
Ce lo hanno raccontato, prima degli storici, Giovanni Verga, già garibaldino, nella novella “Libertà“, in cui descrive le stragi indiscriminate del luogotenente garibaldino Nino Bixio, e Luigi Pirandello, anch’egli di famiglia antiborbonica e risorgimentale, che però nella sua novella “L’altro figlio“, fa dire ad una protagonista che Garibaldi asseriva sì di portare “la libertà”, ma si limitò a liberare dalle carceri tutti i delinquenti e i criminali, per destabilizzare il regno dei Borboni. Afferma la protagonista della novella di Pirandello: “…vossignoria deve sapere che questo Cunebardo (storpiatura popolare di Garibaldi, ndr) diede ordine, quando venne, che fossero aperte tutte le carceri di tutti i paesi. Ora, si figuri vossignoria che ira di Dio si scatenò allora per le nostre campagne. I peggiori ladri, i peggiori assassini, bestie selvagge, sanguinarie, arrabbiate da tanti anni di catena…”.
Scriverà qualche decennio più tardi un altro scrittore siciliano, Carlo Alianello, nel suo “La conquista del sud” (Il cerchio): “Lo stesso giorno 20 ottobre (1860) il Dittatore, il quale esiliava vescovi, arcivescovi e cardinali, fece grazia a tutti i condannati all’ergastolo e alla galera per delitti comuni. Garibaldi sbarazzava le carceri di quei malfattori, per mettervi ufficiali, magistrati, aristocratici, preti e frati. E così si faceva l’Italia“.
Quanto alle terre promesse dal Nizzardo ai meno abbienti, esse finirono non certo nelle mani dei contadini, verso cui dimostrava disprezzo (li considerava “servi dei preti”, perché non si associavano alle sue scalmanate camice rosse), ma dello Stato piemontese, dell’ aristocrazia e della borghesia fondiaria meridionale, che capirono subito, come ci dice Tommasi di Lampedusa nel suo “Il gattopardo”, che si poteva benissimo cambiare tutto, anche mettendo la camicia rossa, senza cambiare nulla, o forse, guadagnandoci ancora di più (Tommasi di Lampedusa accenna infatti allo spartizione, da parte dei nuovi vincitori, delle terre comuni e di quelle della Chiesa, che sino ad allora servivano invece, molto spesso, al sostentamento delle classi più povere).
Non è un caso che dopo la conquista della Sicilia, Garibaldi abbia trovato più amici a Torino e a Londra che in Meridione. Qui infatti il mito di Garibaldi, già di per sé circoscritto, era durato poco più dello spazio di un mattino. Infatti, come testimonia Giuseppe La Farina, braccio destro di Cavour nella organizzazione della spedizione dei Mille, le cui lettere sono state pubblicate sempre da Angela Pellicciari nel testo citato, Garibaldi e i suoi avventurieri si erano subito rivelati per quello che erano: saccheggiatori di ogni ricchezza, pubblica e privata, nelle orge e nel dispotismo.
Lo stesso Garibaldi, nelle sue “Memorie” (Bur), affermava: “Si cominciò a parlare di dittatura, ch’io accettai senza replica, poiché l’ho sempre creduta la tavola di salvezza nei casi d’urgenza e nei grandi frangenti in cui sogliono trovarsi i popoli“.
Dittatore, dunque, in un paese di cui non conosceva nulla, neppure il dialetto, senza il sostegno della popolazione, deciso, per di più, ad imporre ovunque la legislazione piemontese e la leva militare obbligatoria, dai 17 ai 50 anni, ad un popolo che non la conosceva, e che non aveva nessuna intenzione di arruolarsi in massa per guerre che non condivideva e non capiva.
Questo è tanto vero che subito dopo il 1860 il mito risorgimentale fu già, dalle plebi meridionali, dimenticato: al suo posto l’emigrazione di massa, fenomeno prima pressoché inesistente, la leva militare obbligatoria imposta ai meridionali, le rivolte contro l’occupazione piemontese, e i moti anti-sabaudi come quello di Palermo (1866) repressi nel sangue dai prefetti e dall’esercito piemontesi.
Come nota lo storico Mario Isnenghi, infatti, proprio l’opposizione alla unificazione del Meridione al Regno di Sardegna, che cominciò già nel 1860 e che va sotto il nome di “brigantaggio”, “può considerarsi pressoché l’unica manifestazione reale, per estensione geografica, partecipazione numerica e durata, di presenza attiva delle masse subalterne negli anni del Risorgimento“.
Fu Garibaldi stesso a riconoscere, in una lettera ad Adelaide Cairoli: “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei la via dell’Italia Meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi là cagionato solo squallore e suscitato solo odio“.
Inoltre, nel suo “Poema autobiografico” del 1862, non esitò a biasimare in più passaggi quei fatti che vanno sotto il nome di “Risorgimento”, e di cui lui era stato uno dei principali protagonisti: “E l’Italia? E’ fatta cloaca, ai piedi/ del più schifoso de’ tiranni”, cioè quello stesso Vittorio Emanuele, a cui lui stesso aveva consegnato il Regno borbonico, e che viene ora descritto come un uomo “con libertade sulle labbra e…in cuore del coccodrillo la verace sete/ dell’isterminio! A dar battaglia ei viene/ a chi del Mondo la prima corona/pose a’ suoi piedi. Ingrata volpe!…”.
E ancora, proponendo un bilancio passivo dell’unificazione italiana, ormai avvenuta: “Tutto è menzogna e privilegio. Un vano/ di libertade simulacro illude le moltitudini ingannate…”.
Ma nonostante cercasse spesso di prendere le distanze dalla nuova Italia, di cui era stato artefice principale, almeno in teoria, insieme al Cavour, la popolarità dell’eroe dei due mondi sbiadì presto, anche al di fuori del Meridione. Racconta un agiografo come Alfonso Scirocco, nel suo “Giuseppe Garibaldi” (Laterza), che molto presto per la storia dei Mille, narrata da Nizzardo stesso, “è difficile trovare un editore disposto a garantire le 30.000 lire richieste dall’autore”. Allora “l’Eroe pensa all’Inghilterra ma la traduzione non trova promotori…Per assicurarne la vendita scende in capo la Massoneria. Secondo le consuetudini dell’epoca, nel 1874 Timoteo Riboldi diffonde 12.640 schede di prenotazione tra gli amici e gli estimatori del Generale”.
Negli ultimi vent’anni della sua vita Garibaldi, che era personaggio piuttosto vanesio, si diede dunque alla scrittura, raccontò la sua vita e le sue imprese, per mantenere vivo il suo mito ed anche per guadagnare dei soldi, di cui era sempre alla ricerca, nonostante gli giungessero spesso graditi doni da ammiratori stranieri: da alcuni inglesi ricevette per esempio nel 1869 un panfilo, il Princess Olga, mentre un tale John Anderson gli versò una cambiale di 5000 lire in oro.
Ma il versamento più cospicuo fu quello che ottenne nel 1875: un dono governativo, “di gratitudine nazionale”, di 2.000.000 di lire offertogli dal governo De Pretis, che gli valse il soprannome di “eroe dei due milioni” da parte della “Civiltà cattolica”, e di “pensionato della monarchia” da parte dei mazziniani.
Un fatto è certo: la fama, al di fuori dell’ufficialità, ormai scoloriva sempre più, ma Garibaldi forse sbagliò nel cercare di mantenerla, e di guadagnare ancora, scrivendo romanzi e memorie. E’ proprio leggendo quest’ultimi, infatti, con la loro “traballante macchina narrativa”, la “lutulenza alternata all’improvvisa secchezza”, l’ “invadenza e la ripetitività degli squarci polemici”, il “carattere macchiettistico dei personaggi”, le “filippiche antigovernative e le prediche anticlericali” (Mario Isnenghi, “Garibaldi fu ferito“), che il lettore contemporaneo capisce di trovarsi di fronte ad un personaggio imbarazzante, quasi una caricatura.
Da essi infatti traspare l’immagine di un avventuriero inquieto, senza alcuna profondità né di dottrina né di pensiero, ma fanatico, ripetitivo ed intollerante; di un personaggio amante della guerra per la guerra, dell’avventura fine a stessa, che amava ripetere sovente, a suggello di un discorso o di una lettera, frasi inquietanti come la seguente, “La guerra es la verdadera vida del hombre!”, salvo scrivere, due righe oltre, di essere un ardente “pacifista”; di un presunto eroe-pensatore che, secondo una definizione di The Times di quegli anni, “ha rozze nozioni di democrazia, comunismo, cosmopolitismo e positivismo che si mescolavano nel suo cervello“.
Traspare, inoltre, l’immagine di un uomo che strapazzò allegramente donne e figli – infatti ebbe “tre mogli ufficiali e un numero imprecisato di amanti che gli sfornano un bel po’ di figli”, più o meno conosciuti, come nota Gilberto Oneto; mentre Alfonso Scirocco allude alle “facili occasioni” che “da vecchio marinaio” amava cogliere con le donne, numerose, che incontrava nei suoi viaggi, e Luca Goldoni dedica un intero libro alle sue numerose avventure, ribattezzandolo “L’amante dei Due Mondi”-, con la stessa superficialità con cui aveva combattuto e ucciso o con cui aveva elogiato gli omicidi carbonari come quello di Pellegrino Rossi, che avevano contribuito ad impedire che l’Italia conoscesse un’unificazione pacifica e federalista.
Infine, dalla lettura degli scritti di Garibaldi, si evincono altre due caratteristiche dell’eroe, spesso piuttosto silenziate: il suo odio inverecondo e ossessivo per la Chiesa cattolica e la sua assoluta incapacità di un pensiero politico minimamente coerente e fondato (il che lo renderà utile e obbediente di volta in volta agli interessi di Londra, delle logge massoniche, di Cavour e di Vittorio Emanuele).
Basterebbero alcune righe poste da lui stesso a prefazione delle sue “Memorie”: “In ogni mio scritto io ho sempre attaccato il pretismo, perché in esso ho sempre creduto di trovare il puntello d’ogni dispotismo, d’ogni vizio, d’ogni corruzione. Il prete è la personificazione della menzogna. Il mentitore è ladro. Il ladro è assassino: e potrei trovare al prete una serie di infimi corollari. Molta gente, ed io con questa, ci figuriamo di poter sanare il mondo dalla lebbra pretina coll’istruzione…Quindi libertà per i ladri, per gli assassini, le zanzare, le vipere, i preti! E cotesta ultima nera genìa, gramigna contagiosa dell’umanità, cariatide dei troni, puzzolenta ancora di carne umana bruciata, ove signoreggia la tirannide, si siede tra i servi, e conta nella loro affamata turba… Amanti della pace, del diritto, della giustizia- è forza nonostante concludere con l’assioma di un generale americano: ‘La guerra es la verdadera vida del ombre!‘”.
Oppure si possono leggere le sue lettere, in una delle quali definiva Pio IX “quel metro cubo di letame“, invitava a rompere i confessionali, “resi utili a far bollire i maccheroni della povera gente“, e a schiacciare il “verme sacerdotale”.
Nel suo “I Mille”, scritto intorno al 1870, Garibaldi esalta le imprese delle camice rosse e le pone in contrasto con “la nauseante realtà della società odierna“, a cui il Nizzardo metterebbe fine, come gli sembra possa avvenire in sogno, con la creazione di un dittatore temporaneo, capace di amministrare la giustizia in piazza, in uno stato finalmente senza leggi scritte, senza polizia, senza “sgherri” e senza “preti”, in cui si ode “la parola tolleranza ripetuta da tutti e con rispetto“, tranne, naturalmente, “per i lupi, le vipere e i preti“!
Analoghi concetti si possono trovare in “Clelia, o il governo dei preti“, un altro romanzo del Nizzardo, scritta nel 1869, che Mario Isnenghi considera il modello del romanzo anticlericale di Mussolini, “Claudia Particella, l’amante del cardinale”.
Scriveva l’eroe dei due milioni, in conclusione di quest’opera – dopo aver deprecato i veneti che non si erano affatto ribellati agli austriaci nel 1866 e avevano accolto con pieno disinteresse alcuni candidati al Parlamento da lui personalmente sostenuti, nel 1867, una volta “liberati”-, descrivendo se stesso: “Odia i preti come istituzione menzognera e nociva…Professa idee di tolleranza universale e vi si uniforma, ma i preti, come preti non li accetta perché egli non intende siano tollerati malfattori, ladri, assassini e considera i preti quali assassini dell’anima peggiori degli altri. Egli ha passato la sua vita colla speranza di vedere nobilitata la plebe e ne ha propugnato ovunque i diritti. Ma con rammarico confessa pure che egli è rimasto in parte deluso…Egli è d’avviso che la libertà di un popolo consiste nella facoltà di eleggersi il proprio governo, che secondo lui deve essere dittatoriale, cioè di un uomo solo” (come mai a scuola è sempre presentato come “repubblicano”?)
Nel suo testamento, infine, Garibaldi, che sempre più spesso, come si è detto, lanciava improperi contro l’Italia che aveva contribuito a costruire, e di cui fu anche, più volte, parlamentare ultra-assenteista, chiese di essere bruciato, in ossequio al suo panteismo e invitò i suoi cari a tener lontano “il prete”, che “considero atroce nemico del genere umano“, asservitore degli uomini, e, soprattutto, come aveva scritto altrove, delle donne (le più credulone…).
All’ultimo punto, con la solita lucidità con cui era passato dalla fede repubblicana mazziniana al ruolo di dittatore in Meridione alla fede monarchica, per cambiare ancora, scriveva: “Potendolo, e padrona di se stessa, l’Italia deve proclamarsi Repubblica, ma non affidare la sua sorte a cinquecento dottori (cioè ad un parlamento, ndr), che dopo averla assordata con ciarle, la condurranno a rovina. Invece, scegliere il più onesto degli italiani e nominarlo dittatore temporaneo…Il sistema dittatoriale durerà sinchè la Nazione sia più educata a libertà… Allora la dittatura cederà il posto a regolare governo repubblicano“.
Questo era l’uomo, che molti italiani, in verità, non amarono. Non lo amarono i contadini, che Garibaldi infatti criticava per la loro inattività rivoluzionaria, né i cattolici, che detestarono la sua avversione violenta alla loro fede, e il suo spirito rivoluzionario, né la gran parte dei meridionali, di cui non fu il liberatore, ma l’affossatore. Ne riconobbero la pochezza, anche molti altri. Scriveva di lui Proudhon: “Gran cuore, ma niente cervello“, mentre Costantino Nigra lamentava: “Questo Garibaldi è buono solo a distruggere“. Persino uno dei suoi collaboratori più stretti, Francesco Crispi, sosteneva: “La piccolezza della sua mente è una sventura. Grande, omerico sul campo di battaglia, si eclissa nei giorni di pace“.
I suoi libri, non le agiografie ufficiali, sono ancora oggi la testimonianza più vera di quest’ultima affermazione.