Tratto da Corrispondenza Romana
di Roberto de Mattei
Le misteriose origini del coronavirus. Un contributo storico (1a parte)
Una premessa di metodo
Mentre la discussione politica, scientifica e morale sui vaccini contro il Covid-19 divide l’opinione pubblica, c’è un punto di fondo che, malgrado la sua importanza, viene lasciato a margine dei mass-media e dagli informatori culturali: l’origine del coronavirus e della sua diffusione planetaria.
Nelle pagine che seguono mi propongo dunque di mettere in ordine le informazioni che via via sono venite alla luce e di tentare una prima indagine sulla genesi di un evento che sta cambiando la storia.
Il metodo che userò nell’affrontare questo problema è quello dello storico: 1) citare le proprie fonti, dopo averne verificato l’attendibilità; 2) ricostruire i fatti in maniera ordinata, senza tesi preconcette; 3) proporre un’interpretazione che, per quanto personale, si ispiri sempre e solo alla ricerca della verità.
Infine, essere pronto a cambiare la propria opinione, sulla base di nuovi fatti che la contradicessero.
Tra le fonti primarie che sarebbe utile consultare sono i rapporti dell’Intelligence dei maggiori Paesi del mondo. Non sono in grado di attingere a queste fonti, ma ritengo che, almeno in parte, lo abbiano fatto gli autori di due libri di cui è prossima la pubblicazione: What really happened in Wuhan di Sharri Markson, che sarà pubblicato da Harper Collins in settembre e The Politically Incorrect Guide to Pandemics di Steven Mosher annunziato da Regnery per il marzo 2022.
In attesa delle informazioni che ci offriranno queste opere, propongo una ricostruzione degli eventi basata su fonti secondarie e, tra queste, sugli studi di due autori italiani: il primo, che ha il titolo Cina Covid-19. La chimera che ha cambiato il mondo, si deve al medico e ricercatore Joseph Tritto, ed è stato pubblicato dall’editore Cantagalli nell’agosto 2020, con una prefazione di James Goldberg e una postfazione di Luigi Frigerio; il secondo si deve al giornalista investigativo Fabrizio Gatti, ed è stato pubblicato nell’aprile 2021 dall’editore La nave di Teseo, con il titolo L’infinito errore. La storia segreta di una pandemia che si doveva evitare.
La documentazione prodotta da questi autori e da altri, come i giornalisti Nicholas Wade, nel suo saggio, The origin of COVID: Did people or nature open Pandora’s box at Wuhan? (“Bulletin of the Atomic Scientists”, 5 maggio 2021), e Brice Perrier nella sua indagine scientifica SARS-CoV-2, aux origines du mal (Belin, maggio 2021) suggerisce una tesi che cercherò di suffragare con fatti e argomenti: il coronavirus è stato prodotto nel laboratorio cinese di Wuhan, da cui è fuoriuscito, o per un incidente o per intenzioni belliche. Nell’uno o nell’altro caso le responsabilità della Cina comunista sono gravissime, ma altrettanto gravi sono quelle dei Paesi occidentali che, essendo presumibilmente arrivati a conclusioni simili nelle loro indagini riservate sull’origine del virus, hanno scelto il silenzio per il timore di innescare tensioni politiche, militari ed economiche con la Cina.
In realtà il regime comunista cinese potrà solo trarre vantaggio da questo silenzio, come ora sta traendo il massimo vantaggio dalla diffusione della pandemia, che purtroppo è drammaticamente reale e i cui effetti più nefasti si stanno producendo nel campo psicologico e culturale.
Lo scopo di questo studio è proprio quello di offrire elementi di chiarezza nella situazione di confusione delle menti e di agitazioni degli animi in cui l’Occidente sembra oggi immerso.
La vetrina luccicante di Wuhan
La città di Wuhan, con undici milioni di abitanti è il capoluogo di Hubei, una storica provincia della Cina centrale, senza sbocchi sul mare. Wuhan è dotata di diversi aeroporti e nove linee di metropolitana ed è considerata la “vetrina” tecnologica e industriale dell’Impero comunista cinese. E’ chiamata la “Detroit cinese”, perché vi hanno sede i maggiori produttori nazionali di auto, ed è anche detta la “Silicon Valley cinese”, perché ospita aziende all’avanguardia nello sviluppo delle nuove tecnologie. A una ventina di chilometri dal centro della città di Wuhan, oltre il fiume Yangtze si trovano, non distanti l’uno tra l’altro, tre istituti: il China Biology Technology Group, il Biological Engineering Department e il Wuhan Institute of Virology, che ospita il Wuhan National Biosafety Laboratory (Laboratorio nazionale di biosicurezza), l’unico sito in Cina con il livello di sicurezza P4, il massimo riconosciuto internazionalmente.
Ciò che accadde il 4 luglio 2019 alla periferia di Wuhan, scrive Massimo Gatti, ha infranto la luccicante vetrina. Quel giorno le immagini dei plotoni antisommossa contro migliaia di abitanti di Wuhan che manifestano gridando «rovesciate il Partito comunista» finiscono su Weibo, il sito cinese di “microblogging” (un ibrido di brevi contenuti in rete, fra Twitter e Facebook) e, prima di essere censurate, fanno il giro del pianeta. «E – aggiunge Gatti – per i comunisti cinesi, così come per tutti i regimi totalitari, il mancato controllo dell’informazione su un fatto è perfino più grave del fatto stesso» (p. 85).
Il giornalista riporta alcune immagini della protesta, svolta dal 28 giugno al 4 luglio, per sette giorni di fila (pp. 92-99). Ciò che colpisce in esse, osserva, non è la scontata violenza della polizia, ma la rabbia dei cittadini, appartenenti alla nuova classe media cinese.
Negli stessi giorni a Hong Kong, due milioni di persone, quasi il trenta per cento della popolazione, scende in piazza contro la governatrice filocinese Carrie Lam.
Questi eventi dimostrano come le ostentazioni di forza del regime comunista, come la gigantesca parata militare nel 70º anniversario della Repubblica Popolare Cinese, nascondono serie e in parte incontrollabili difficoltà interne.
La dittatura comunista in Cina
Nel 2019 la Cina comunista ha celebrato i suoi settant’anni di vita. La Repubblica Popolare Cinese fu fondata infatti da Mao Zedong il 1º ottobre 1949. Da allora il Partito Comunista cinese governa la Cina. Xi Jinping è dal 2012 segretario del Partito comunista e dal 14 marzo 2013 presidente della Cina comunista, a cui si contrappone la Repubblica di Cina, l’isola di Taiwan, ancora libera e indipendente. Da Xi Jinping dipende l’esercito popolare di liberazione, con due milioni di soldati attivi e cinquecentomila riservisti; la Polizia armata del popolo, con un milione e mezzo di militari specializzati in sicurezza interna, interventi antisommossa e antiterrorismo; la Milizia, con circa tre milioni di donne e uomini inquadrati con ruoli ausiliari nelle divisioni paramilitari.
Xi Jinping e i leader del Partito comunista cinese sono ossessionati dalla caduta dell’Unione Sovietica e degli altri Paesi comunisti dell’Europa orientale. Il loro problema, come osserva Massimo Introvigne, è evitare che il PCC condivida la sorte dei partiti comunisti nell’Europa orientale (qui). Per questo non arretrano di fronte a nessuna forma di repressione.
Il World Report 2020 sulle violazioni dei diritti umani nel mondo durante il 2019, pubblicato da Human Rights Watch, è ampiamente dedicato alla dittatura di Xi Jinping. Il rapporto spiega che, più di qualsiasi altro governo, Pechino ha messo la tecnologia al centro della sua attività di repressione. Sono 134 le aziende cinesi che producono strumenti per la repressione delle manifestazioni e la tortura dei detenuti. La Società internazionale dei diritti umani, un’organizzazione non governativa con sede a Francoforte, ha raccolto in uno studio i metodi di interrogatorio più diffusi nella Repubblica popolare, secondo le diverse pratiche: torcere e allungare gli arti, elettroshock, ustioni, fame, sete e privazione del sonno, violenza sessuale, ferite da punta e di taglio, aggressioni per mezzo di animali e fratture di dita e di ossa. Tra le pratiche diffuse c’è anche quella di espiantare gli organi dei detenuti politici, per alimentare il fiorente mercato di organi del Paese.
Uno studio pubblicato nel 2020 e finanziato dalla Victims of Communism Memorial Foundation, denuncia con numerose testimonianze l’assassinio di detenuti politici in Cina, con lo scopo di rifornire con i loro organi alcuni degli ospedali che trapiantano cuore, fegati, polmoni e reni a pazienti cinesi e stranieri (qui). Alcuni dei più grandi e più avanzati ospedali cinesi specializzati in trapianti hanno sede proprio a Wuhan.
Inoltre, dal 2003, è operativo il Golden Shield Project, un progetto di sicurezza nazionale, che esercita, attraverso sofisticati software, un massiccio controllo sull’informazione. Anche WeChat, la piattaforma di messaggistica cinese usata da oltre un miliardo di persone in Cina e all’estero, è sottoposta, ovunque, alla stessa sorveglianza attiva. Uno degli obiettivi del governo, è il rafforzamento della digital repression: «il controllo totale della popolazione residente attraverso il sistema del credito sociale (citizen score system), strumento che valuta l’affidabilità dei cittadini e quindi misura la fiducia che si può riporre. A ogni cittadino viene assegnato un punteggio reputazionale che condiziona e perimetra l’agire» (Antonio Salvatici, Coronavirus made in China, Rubbettino, Soveria Mannelli 2020, p. 7).
Tra i dieci milioni di abitanti di Hangzhou, ad esempio, si stanno installando telecamere nelle classi, per controllare l’espressione facciale e il grado di attenzione degli studenti. Xi Jinping e il suo apparato sono inoltre riusciti a costruire all’estero un’imponente rete di propri supporter: docenti universitari, imprenditori, manager e una varietà di parlamentari che, nelle democrazie occidentali, copre l’intero schieramento, dalla destra sovranista ai nuovi movimenti nati da Internet.
La Cina sviluppa inoltre un’attività di “spionaggio diffuso” in Occidente. Il regime
comunista impiega sistematicamente i propri cittadini all’estero per raccogliere informazioni e utilizza le strutture diplomatiche per gestirle. Ogni studente cinese all’estero è un potenziale agente perché tutti sono obbligati per legge a commettere spionaggio contro gli Stati Uniti. Gli articoli 7 e 14 della National Intelligence Law cinese del 2017 prevedono che ogni cittadino cinese all’estero svolga attività di spionaggio, se richiesto. Il 26 aprile 2021, la Cina ha approvato una nuova legislazione interna sullo spionaggio e il controspionaggio che prevede, tra le altre cose, che qualsiasi cittadino cinese che rientri in patria da un viaggio all’estero, sia obbligato a sottoporsi a un colloquio-intervista con i Servizi segreti di Pechino, se da questi richiesto (HuffPost, 28 aprile 2021).
Le armi biologiche del XXI secolo
La biotecnologia rappresenta, con l’informatica, uno dei principali campi di ricerca e di investimento del governo cinese. Un trattato internazionale, la Convenzione sulle armi biologiche (Biological and Toxin Weapons Convention: BTWC), firmata il 12 aprile 1972 ed entrata in vigore il 26 marzo 1975, vieta la sperimentazione e la produzione di armi biologiche. La Cina ha aderito, ma non ha mai ratificato la Convenzione. Questa mancata ratifica ha permesso alla Cina di sviluppare la ricerca biotecnologica a scopo militare, in linea con la sua ambizione di grande potenza. Esiste un programma cinese di guerra biologica attivo nelle strutture che sono sotto il controllo della difesa e delle forze armate (qui).
Le armi biologiche appartengono alla categoria delle armi di distruzioni di massa. Il loro uso comporta molti vantaggi. Durante la guerra fredda la pace internazionale fu assicurata dall’“equilibrio del terrore” tra Russia e Stati Uniti, consapevoli entrambi che l’uso delle armi nucleari avrebbe provocato una risposta immediata e devastante dell’altra superpotenza. Nessuna deterrenza è possibile quando le armi nucleari sono sostituite da quelle biologiche che, per loro natura, si prestano ad un uso dissimulato. A differenza dell’attacco nucleare o chimico, l’attacco biologico produce un effetto lesivo o mortale su cose e persone senza che si riesca ad individuarne la vera origine. Inoltre, a causa della sua natura occulta, questa guerra colpisce non solo il fisico, ma anche il morale della popolazione, la quale attribuisce la responsabilità dei danni non a chi ha provocato la crisi, ma a chi all’interno dei propri paesi sta tentando di gestirla: «in ultimo – osserva Tritto – è praticamente impossibile identificare con certezza se si sia trattato di un attacco, di un evento naturale o di un episodio ascrivibile a una carente safety» (p. 51).
Il concetto di guerra biologica è cambiato negli ultimi anni, con il passaggio dalle armi tossicologiche a quelle a vettore patogeno, classificate in relazione alla capacità distruttiva del virus.
Un agente patogeno, per poter essere selezionato come arma biologica, deve rispondere ad alcune caratteristiche essenziali: a) essere un microrganismo raro, insolito o unico che causa una malattia nuova; b) non lasciare alcuna traccia epidemiologica documentata sulla sua origine; c) possedere un’insolita distribuzione e/o selettività geografica; d) avere sorgenti multiple di infezione contemporanee (Tritto, p. 79).
Va ricordato a questo proposito che nel 1999 fu pubblicato un libro di due ufficiali cinesi, Qiao Liang e Wang Xiangsui, dal titolo Unristrected warfare (in italiano Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, LEG 2019) in cui gli autori sostenevano che la Cina, per difendersi, non dovrebbe esitare ad usare tutti gli strumenti che ha a disposizione, “oltre ogni limite”.
Il concetto di “guerra senza limiti” ci rimanda a quello di “guerra asimmetrica”: un conflitto in cui una delle parti è costretta a difendersi da un nemico non identificabile, che usa armi non convenzionali. L’uso delle biotecnologie, dell’informatica, dell’intelligenza artificiale fa parte della strategia militare cinese ed è un tipico esempio di guerra asimmetrica.
La Cina, ad esempio, secondo quanto scrive John Ratcliffe, direttore della National Intelligence statunitense, sul Wall Street Journal del 3 dicembre 2020, starebbe conducendo esperimenti su membri dell’Esercito Popolare di Liberazione, per creare dei “super soldati” biologici, utilizzando la tecnologia CRISPR, uno dei più avanzati e discussi strumenti di manipolazione genetica (qui).
Almeno trenta istituti di ricerca in Cina sono coinvolti in ricerca, sviluppo, produzione, o custodia di armi biologiche (Gatti, pp. 258-259). L’Army Logistic Scientific Research Project, uno dei piani di ricerca scientifica dell’esercito, spazia dalle applicazioni dell’intelligenza artificiale alle analisi dei dati biomedici, al brevetto di nuovi agenti patogeni. Droni, intelligenza artificiale, tecnologia quantica, biologia, neuroscienze, sono le nuove frontiere della strategia militare cinese (Tritto, p. 75). Ciò ha permesso alla Cina di accrescere notevolmente la propria capacità difensiva ed offensiva.
Tutti i governi sono consapevoli della possibilità di una guerra biologica, e del rischio di una fuoriuscita accidentale di virus patogeni da laboratori privi dei necessari standard di sicurezza. La ricerca sui vaccini in corso da molti anni ha il fine di difendersi non solo da epidemie naturali, ma anche dalla possibile diffusione nel mondo di virus sintetici (cfr. Biodefense in the Age of Synthetic Biology. National Academies Press (US), 2018).
I problemi della biosicurezza
Il livello di biosicurezza (biosafety level) è un insieme di precauzioni richieste per l’isolamento di agenti biologici pericolosi in un ambiente chiuso. Il livello di contenimento varia dal livello 1, il più basso (BSL-1) fino al più alto livello 4 (BSL-4). La definizione dei livelli è stata messa a punto negli Stati Uniti d’America dal Centers for Disease Control and prevention (CDC), un’agenzia federale degli Stati Uniti di controllo sulla sanità pubblica.
Un’epidemia di SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome) ha colpito la Cina nel biennio 2002-2003, provocando centinaia di morti. Tra i perseguitati del regime di Pechino, ricorda Gatti, il generale-medico Jiang Yanyong, che nel 1989 denunciò, con una lettera alle autorità, il massacro di piazza Tienammen e nel 2004 fu arrestato per aver diffuso notizie precise sull’epidemia nel suo paese, fino a quel momento tenute nascoste dal suo governo. Fin da allora si parlò della possibilità che il virus fosse fuggito dall’Istituto di virologia di Pechino, per la negligenza nelle misure di biosicurezza. La stessa Oms, il 18 maggio 2004, lanciò l’allarme sulla possibilità di nuovi incidenti per la cattiva gestione dei laboratori in Cina, dopo il focolaio di SARS a Pechino.
In questo periodo la Francia, isolata da Washington per non avere aderito alla guerra in Iraq, strinse importanti alleanze economiche con Pechino. Dalla nuova amicizia tra i presidenti di allora, Jacques Chirac e Hu Jintao, nacque anche la decisione di costruire a Wuhan un laboratorio di sicurezza P4, malgrado la reticenza della diplomazia francese e degli ambienti militari di Parigi consapevoli che la scienza in Cina è direttamente controllata dal Partito Comunista attraverso l’Accademia delle Scienze. «Regalare due secoli di progresso nello studio dei virus e dei batteri più pericolosi – commenta Gatti –, potrebbe mettere un regime fortemente militarizzato e antidemocratico come quello di Pechino, nelle condizioni di dominare la coltivazione di nuovi agenti patogeni, senza alcuna possibilità di controllo. Ed è esattamente quello che avverrà» (p. 226).
Il 23 febbraio 2017 il primo ministro socialista francese Bernard Cazeneuve, arrivato a Wuhan da Parigi, annuncia che «la Francia è onorata di aver contribuito alla costruzione del primo laboratorio di alta sicurezza biologica P4 in Cina», il Wuhan National Biosafety Laboratory. «Questo laboratorio che abbiamo costruito insieme sarà una punta di diamante nella nostra lotta contro le malattie emergenti» (qui).
Il governo cinese ha finalmente raggiunto il suo obiettivo: creare il suo primo laboratorio P4 nazionale, dotato di una enorme biobanca con campioni di virus di ogni genere, al cui interno viene svolta una ricerca sia civile che militare. Il laboratorio di Wuhan, al centro di una rete di laboratori P4, svolge ricerche su virus potenzialmente patogeni per l’uomo sia nel campo biomedico che in quello delle armi biologiche. «Possiamo quindi considerare il laboratorio di Wuhan uno straordinario strumento per realizzare gli obiettivi civili e militari della Repubblica popolare cinese» (Tritto, p. 78).
Una parte della comunità scientifica internazionale è però angosciata per la possibile «fuoriuscita di agenti patogeni e per l’aggiunta di una dimensione biologica alle tensioni geopolitiche tra la Cina e le altre nazioni» (Gatti, p. 257).
Il 24 ottobre 2019 il professor Yuan Zhiming, direttore del laboratorio di biosicurezza di
Wuhan pubblica sul Journal of Biosafety and Biosecurity, dell’editore olandese Elsevier, un articolo in cui denuncia la pericolosità delle ricerche su batteri e virus in Cina. Il prof. Yuan propone di correggere le linee guida, le norme e gli standard di biosicurezza esistenti nei laboratori cinesi. E’ consapevole del fatto che il nuovo coronavirus già sta circolando?
La misteriosa dottoressa Shi Zhengli
La figura chiave nella storia di questi eventi è la dottoressa Shi Zhengli, dell’istituto di Wuhan, soprannominata dai suoi colleghi “Batwoman” per le sue ricerche sui coronavirus dei pipistrelli.
Dopo l’epidemia del 2002-2003, la dottoressa Shi Zhengli scoprì che alcuni pipistrelli a ferro di cavallo (Rhinolophus ferrumequinum, che devono il loro nome a un’escrescenza sul muso a forma, appunto, di ferro di cavallo) sono i serbatoi naturali di coronavirus simili a quelli della Sars (Bats Are Natural Reservoirs of SARS-Like Coronaviruses) e a partire dal 2005 guidò con il suo collega Cui Jie una squadra di ricercatori che visitò decine di grotte abitate da milioni di pipistrelli e ne campionò migliaia in tutta la Cina.
Nell’autunno del 2006 Shi Zengli frequentò un corso di formazione al laboratorio P4 Jean Mérieux di Lione. Al suo ritorno in Cina partecipò a un progetto che, attraverso operazioni di ingegneria genetica, si proponeva di modificare le proteine S-spike del coronavirus dei pipistrelli, per ottenere un nuovo spike in grado di legarsi all’ACE2 (Angiotensin Converting Enzyme 2), un enzima che si trova nelle cellule umane e che può fungere da recettore del virus. La proteina spike (in italiano “punta” o “chiodo”) ricopre la superficie esterna dei coronavirus di protuberanze a forma di “corona” che costituiscono il principale meccanismo attraverso cui vengono infettate le cellule bersaglio.
Nel 2013 Shi Zengli è nominata direttrice del laboratorio Bsl-3 di Wuhan, dove aziende francesi hanno cominciato a costruire la struttura di massimo contenimento Bsl-4, prevista dagli accordi firmati quasi dieci anni prima. Nel 2014 viene promossa direttrice del Comitato di biosicurezza dell’Istituto di Virologia di Wuhan, quindi direttrice del Laboratori per i patogeni speciali e la biosicurezza dell’Accademia delle Scienze. «Con questi incarichi – scrive Gatti – il Partito comunista le riconosce la totale fedeltà ed evidentemente si aspetta da lui il dovuto ossequio» (p. 246).
Il 28 novembre 2013, la dottoressa Shi Zengli, assieme allo zoologo britannico Peter Daszak, pubblica sulla rivista Nature uno studio in cui si dimostra che, partendo da un campione di feci di pipistrello, è possibile infettare una coltura di cellule, isolare il coronavirus e farlo replicare (qui). La scoperta più preoccupante è che il nuovo coronavirus SL.CoV-WIV1 (iniziali del Wuhan Institute of Virology) e il suo gemello Rs3367, sono in grado di legarsi all’enzima Ace2 che funge da recettore del virus nell’uomo, e potenzialmente di passare dai pipistrelli all’uomo, facendolo ammalare (Gatti, pp. 237-238).
Nel 2014 Shi Zengli inizia la sua collaborazione con il prof. Ralph S. Baric, direttore del laboratorio di immunologia e microbiologia dell’università del North Caroline per condurre esperimenti di mutazione genetica. “Lavorare con Ralph Baric, il papa del coronavirus di sintesi – scrive Brice Perrier – segna probabilmente una tappa importante per Shi Zhengli” (op. cit., p. 121). Shi Zengli e Baric lavorano sul cosiddetto “guadagno di funzione” (GoF: gain of function), una tecnica che produce su di un organismo, delle modificazioni genetiche in grado di determinare l’acquisizione di una nuova funzione o il potenziamento di una preesistente. Nella ricerca biologica il prodotto di una combinazione ottenuta mescolando fisicamente le cellule di due differenti organismi viene detto “chimera”, come la creatura mitologica dallo stesso nome. L’alleanza tra lo studioso americano e la ricercatrice cinese punta a costruire una nuova chimera, mai esistita prima, in grado di replicarsi e diffondersi nei topi e di attaccare le cellule delle prime vie respiratorie umane, con caratteristiche di infettività equivalenti ai virus della Sars e senza possibilità di cura.
Gatti commenta: «Se dopo la prima epidemia di Sars questa possibile trasformazione nei pipistrelli non si è più manifestata, ciò è invece avvenuto nei laboratori di Cina e Stati Uniti con la fabbricazione del virus chimera: abbiamo insomma un agente patogeno in più, potenzialmente in grado di sterminare migliaia di persone» (Gatti, p. 249).
Gli esperimenti proibiti continuano
Quando viene creato il primo virus chimera, gran parte della comunità scientifica mondiale mette in discussione la reale necessità di tali esperimenti in termini di progresso della conoscenza medica, se paragonata ai rischi. «I ricercatori – dichiarava ad esempio Simon Wain Hobson, virologo all’Istituto Pasteur di Parigi, – hanno creato un nuovo virus che si riproduce con sorprendente successo nelle cellule umane. Se il virus scappasse, nessuno potrebbe prevederne la traiettoria» (Gatti, p. 252).
Il 7 ottobre 2014, sotto la presidenza Obama, l’ufficio per la Politica scientifica e tecnologica della Casa Bianca sospende i finanziamenti federali per qualsiasi esperimento di “gain of function” che potenzi agenti patogeni come l’influenza aviaria, la SARS o i virus MERS. Nel dicembre 2017 il presidente americano Donald Trump revoca la sospensione degli esperimenti fermati tre anni prima da Obama. Essendo però stato autorizzato dal National Institute of Health prima della moratoria del governo americano, il lavoro di Shi Zengli e Ralph Baric sul coronavirus-chimera prosegue tra la preoccupazione generale.
Nel 2014 inoltre, Peter Daszak, presidente di Eco Health Alliance, riceve 3.75 milioni di dollari dal National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID), per un progetto di sei anni centrato sull’emergenza di nuovo coronavirus derivante dai pipistrelli. Tra marzo e luglio 2016 la squadra guidata da Shi Zengli e Peter Daszak registra il genoma di altri coronavirus dei pipistrelli e riesce a isolare e a far replicare in laboratorio un nuovo coronavirus, che denominano WIV16. Un ampio servizio del New York Times del 22 luglio 2021 ricorda che già nel 2017 la dott.ssa Shi e i suoi colleghi del laboratorio di Wuhan hanno pubblicato un rapporto su un esperimento in cui hanno creato nuovi coronavirus ibridi di pipistrello mescolando parti diverse di quelle esistenti, incluso almeno uno che era quasi trasmissibile agli esseri umani, al fine di studiare la loro capacità di infettare e replicarsi nelle cellule umane, attraverso i cosiddetti esperimenti “gain of function”.
Queste ricerche sono condivise e incoraggiate dalle autorità militari cinesi. Fin dal 5 gennaio 2018, l’Institute of Military Medicine Nanjing Command deposita nella banca dati GenBank due coronavirus Sars-like dei pipistrelli, chiamati SL-CoVZC45 e SL-CoVZXC21 che infettano i pipistrelli e che sono stati identificati nel 2018 nella Cina orientale (qui).
Ci si chiede giustamente: perché l’esercito popolare di liberazione cinese si interessa dello sviluppo di nuovi coronavirus, se non nella prospettiva di studi sulla guerra biologica?
Al centro di queste ricerche per sviluppare le capacità belliche, offensive e difensive, della Cina comunista, è il laboratorio di Wuhan, dove opera il Wuhan Institute of Biological Products, un istituto che fa parte delle strutture di ricerca sulla guerra biologica che operano sotto il controllo del Ministero della Difesa. (Continua)