di Cristina Siccardi
L’italiano don Ambrogio Maria Canavesi (classe 1986), insieme al polacco don Wawrzyniec Maria Waszkiewicz (classe 1985)[1], hanno scritto un libro molto intenso, molto bello e molto importante, dal titolo Guerrieri serafici. Racconti di pace e bene… e guerra, pubblicato da Tabula Fati (pp. 228, € 13,00). Qui si parla di francescani, seguaci autentici di san Francesco d’Assisi, che, nel loro slancio missionario, hanno combattuto per Cristo e per la Fede. Pacifici, ma non pacifisti. «La pace cristiana non equivale alla pace del pacifismo», scrivono gli autori nella loro introduzione e si chiedono: «Come è possibile che la pace pacifista abbia sostituito nelle coscienze religiose il reale concetto teologico e spirituale della pace cristiana, così presente ed evidente in tutte le fonti della rivelazione? Forse è così perché non si conosce più la Sacra Scrittura, piena di guerre e di linguaggio militare. O forse perché, anche conoscendola, è ritenuta ormai anche dai cristiani (e, ahimè!, forse soprattutto da loro) una costruzione mitologica o un superfluo relitto del passato, destinato a fare i conti con la mentalità e la scienza moderna. La cosiddetta “maturità cristiana”, di cui molti si fanno vanto, non ha bisogno né di testi sacri né di un Redentore (e forse nemmeno di un Dio)».
Il merito di questo testo, dedicato a «tutti coloro che lavorano e soffrono per la ricostruzione di un francescanesimo militante sotto le insegne dell’Immacolata», è quello di porre in evidenza che Gesù è venuto in terra per dividere non per unire: perché chi segue il Crocifisso non è con il mondo, ma contro il mondo. La cattolicità vera è presente solo quando ci sono dei militanti, dei soldati di Cristo. Lo stesso sacramento della Cresima ci rende «soldati di Cristo» e il ruolo del soldato è quello di combattere, prima di tutto contro le proprie cattive inclinazioni, contro tutto ciò che lo allontana dall’unione con la Santissima Trinità ed è chiamato a combattere, sempre, per difendere la Fede e la Chiesa. Ma poi, ci sono anche in momenti in cui, i cristiani furono chiamati anche a combattere proprio nelle guerre. Quanti militari… pensiamo ai Martiri della Legione tebea, a quanti martiri, a quanti cappellani di tutti i conflitti. Padre Bochenski, autore, di un manuale di etica militare, dichiara che sui campi di battaglia molto spesso le virtù eroiche diventano fatto normale, ovvio, quotidiano…
Questo libro non propone storie di fantasia, ma di fatti reali, in cui i protagonisti hanno per davvero vestito le divise dei soldati alla sequela di Cristo e con orgoglio e coraggio non si sono risparmiati, fino a perdere la propria vita per la causa del Regno di Dio.
Si parte, quindi, da San Francesco, cavaliere e condottiero di Cristo e crociato, che mutò le armi mondane in quelle spirituali, come pone in rilievo uno dei suoi primi biografi. Egli non rinuncio mai all’ideale del cavaliere, anzi, riuscì a realizzarlo appieno, mondandolo in paniera eccezionale, proprio servendo il suo generale, Gesù Cristo. Dopo l’incontro di santa Chiara con i saraceni, che ella riuscì ad allontanare, ci viene proposta la testimonianza di san Giovanni da Capestrano a Belgrado, nel 1456, che sarà beatificato nel 1650 e canonizzato alla fine del XVIII secolo, il secolo delle epiche vittorie sui musulmani di Sobieski e di Eugenio di Savoia Soissons, in un contesto storico dove agì anche l’impavido padre Marco d’Aviano. Si racconta che il condottiero Eugenio, la notte prima della battaglia del Tibisco, abbia sognato proprio il cappellano dei crociati di Belgrado, san Giovanni da Capestrano, come si evince dai versi riportati nel libro:
«Il Capistran dal Paradiso arriva, (…)
Destar lo vuol, ma quasi desto il trova,
E dice: “oggi son teco ad alta prova”.
Al venerando aspetto,
Al lume ignoto il Principe rapito,
Attonito riman per maraviglia.
Il sacro Vecchio allor così ripiglia;
“Scendo dal cielo, e a trionfar t’invito!
Vesti l’armi su su figlio diletto!
E non stimar difetto
L’ardir che dirlo vizio a’ molto piace;
Che talvolta è virtù l’esser audace»[2].
La narrazione non è accademica, ma narrativa, gli autori ci offrono affreschi e ambientazioni suggestive nel delineare i profili di questi guerrieri francescani, fra cui padre Anselmo da Pietramelara che portò il suo ministero a Lepanto, nel 1571. Quei novelli crociati partirono con la benedizione a loro impartita dal Vicario di Cristo, san Pio V e anche i cappuccini partirono con la benedizione e lo stendardo papale e il loro spirito era forte, militare, ardente come veri «cavalieri della tavola rotonda», come lo stesso san Francesca definiva i suoi frati.
Padre Massimiliano Kolbe alla sua scrivania, campo aperto della sua battaglia
E poi via via gli altri nomi, gli altri, santi, gli altri soldati di Cristo…. Fino ad arrivare a san Massimiliano Kolbe e alla fondazione della Milizia dell’Immacolata nel 1917, l’anno della Rivoluzione Russa, mentre in Occidente infuriava il potere liberale e anticlericale della Massoneria e le idee di Marx s’impossessavano delle menti e dei cuori. Lui, padre Kolbe, che diede la propria vita per amore di Cristo, in un lager nazista, ha dichiarato guerra ai nemici della Chiesa del suo tempo attraverso l’arsenale delle tipografie per inalberare il vessillo dell’Immacolata sulle case editrici dei quotidiani, della stampa periodica e non periodica, delle agenzie di stampa, sulle antenne radiofoniche, ovunque, «sugli istituti artistici e letterari, sui teatri, sulle sale cinematografiche, sui parlamenti, sui senati» (p. 222), insomma ovunque, in tutto il mondo. Soltanto un vero milite di Gesù può guidare con tanta forza le sue “truppe”, alcune delle quali sono ancora molto preparate, attente e vigili, come dimostrano gli autori di questo imperdibile volume.
[1] Il primo laureato in Scienze storiche all’ Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, il secondo in biblioteconomia.
[2] Le glorie di S. Giovanni da Capestrano flagello de’ turchi, rinovate in Lucca da’ suoi Divoti per la famosa vittoria ottenuta a Tibisco dal serenissimo principe Eugenio di Savoia generale in Ungheria di S.M.C., Lucca 1697.