Tratto da: Stilum Curiae
FRATELLI TUTTI: UN MINIMO COMUNE DENOMINATORE NATURALISTA
come programma per l’umanità disorientata
di José Antonio Ureta
Fratelli Tutti non sembra un’enciclica. Ma piuttosto la continuazione del dialogo che, dall’inizio del suo pontificato, Francesco ha mantenuto con agnostici come Eugenio Scalfari, Dominique Wolton o Carlo Petrini, nel tentativo di convincerli che la Chiesa Cattolica è compatibile con la modernità atea.
Le encicliche dei pontefici precedenti prendevano dalle verità eterne della Rivelazione divina gli insegnamenti applicabili alla situazione concreta, e specialmente alle crisi, della congiuntura ecclesiale o temporale. Diversamente, lo “spazio di riflessione sulla fraternità universale” (n. 286) di Francesco propone un’infinità di analisi esclusivamente umane come un denominatore comune accettabile per tutti, nonostante le divergenze religiose o filosofiche, dato che questa Lettera è “rivolta a tutte le persone di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose” (n.56).
Tale ricerca del minimo comune denominatore con l’agnosticismo risulta evidente nel passaggio dell’enciclica su “il consenso e la verità”, in cui si sottolinea che la dignità inalienabile di ogni essere umano “è una verità corrispondente alla natura umana al di là di qualsiasi cambiamento culturale” e si aggiunge: “Agli agnostici, questo fondamento potrà sembrare sufficiente per conferire una salda e stabile validità universale ai principi etici basilari e non negoziabili, così da poter impedire nuove catastrofi. Per i credenti, la natura umana, fonte di principi etici, è stata creata da Dio, il quale, in ultima istanza, conferisce un fondamento solido a tali principi”. Forse per evitare qualunque sospetto di proselitismo religioso, chiarisce che “ciò non stabilisce un fissismo etico né apre la strada all’imposizione di alcun sistema morale, dal momento che i principi morali fondamentali e universalmente validi possono dar luogo a diverse normative pratiche. Perciò rimane sempre uno spazio per il dialogo” (n. 214).
Da tale ricerca di un minimo comune denominatore con l’agnosticismo risulta anche che, in questa enciclica, abbondantemente autoreferenziale (170 citazioni di se stesso, 43 dei suoi predecessori, solo 20 di padri e dottori della Chiesa), si nota l’assenza di presupposti e persino di considerazioni di carattere soprannaturale e di considerazioni religiose specificamente cristiane. Fratelli Tutti adotta un linguaggio chiaramente naturalista e interconfessionale. Praticamente vengono omesse la vocazione soprannaturale dell’uomo, la ferita introdotta dal peccato nel mondo, la necessità della Redenzione in Cristo, il ruolo salvifico della Chiesa, la grazia divina come requisito per il perfezionamento individuale e il progresso sociale e la legge naturale come fondamento dell’ordine internazionale, che sono state la base delle esortazioni dei pontefici anteriori.
Il naturalismo e l’interconfessionalismo sono particolarmente evidenti nell’idea-base dell’enciclica, ovvero il “nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale” (n.6) e la conseguente “aspirazione mondiale alla fraternità” (n.8) che Francesco vuole far rinascere a partire dal riconoscimento da parte di tutti della dignità di ogni persona umana, senza alcun riferimento a Dio, a parte una breve menzione alla convinzione dei credenti, il che accentua il tono inusuale del documento: “Come credenti pensiamo che, senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità” (n.272).
La stessa parabola del Buon Samaritano viene interpretata in chiave meramente umanista: il racconto, secondo il papa, “ci rivela una caratteristica essenziale dell’essere umano, tante volte dimenticata: siamo stati fatti per la pienezza che si raggiunge solo nell’amore” (n. 68). Gesù “ha fiducia nella parte migliore dello spirito umano e con la parabola la incoraggia affinché aderisca all’amore, recuperi il sofferente e costruisca una società degna di questo nome” (n. 71). Il carattere laico di tale amore si accentua con la considerazione che una persona di fede “può sentirsi vicina a Dio e ritenersi più degna degli altri”, mentre paradossalmente “a volte, coloro che dicono di non credere possono vivere la volontà di Dio meglio dei credenti” (n.74).
Questo amore al prossimo non deriva necessariamente dall’amore di Dio. La parola “carità” è utilizzata 33 volte nell’enciclica, ma mai viene associata alla “amicizia dell’uomo verso Dio”, che è ciò in cui essa consiste essenzialmente (S. Tommaso d’Aquino, Summa, II-II, q. 23, a. 1, risp.), per cui risulta che “la ragione di amare il prossimo è Dio” (Ibid. q.25, a.1, risp.). L’omissione del carattere principalmente verticale della carità arriva al punto di affermare che a orientare gli atti delle virtù morali (come la fortezza, la sobrietà, la laboriosità, etc.) è “in quale misura essi realizzino un dinamismo di apertura e di unione verso altre persone” (n. 91), facendo silenzio sull’amore a Dio.
Ciò detto, Fratelli Tutti sembra rientrare ampiamente nel giudizio critico emesso sugli scritti del movimento Le Sillon da San Pio X nell’enciclica Notre charge apostolique, dove scrisse che tale movimento promuoveva un concetto di fraternità non cattolico:
“Questa stessa dottrina cattolica ci insegna pure che la sorgente dell’amore per il prossimo si trova nell’amore di Dio, padre comune e comune fine di tutta l’umana famiglia, e nell’amore di Gesù Cristo, di cui siamo le membra al punto che consolare un infelice equivale a far bene a Gesù Cristo stesso. Ogni altro amore è illusione o sentimento sterile e passeggero. Certamente, l’esperienza umana sta a provare, nelle società pagane o laiche di tutti i tempi, che in certi momenti la considerazione dei comuni interessi o della naturale somiglianza è di scarsissimo peso di fronte alle passioni e agli affetti disordinati del cuore. No, Venerabili Fratelli, non vi è vera fraternità al di fuori della carità cristiana, che per amore di Dio e del suo Figlio Gesù Cristo, nostro Salvatore, abbraccia tutti gli uomini per confortarli tutti e tutti condurre alla stessa fede e alla stessa felicità celeste. Separando la fraternità della carità cristiana intesa in tal modo, la Democrazia [promossa da Le Sillon], lungi dall’essere un progresso, costituirebbe un disastroso regresso per la civiltà” (n.24, il neretto è mio).
Le parole di S. Pio X danno la luce necessaria per mettere in rilievo un altro aspetto dell’ultima enciclica di Francesco: la sintesi relativista della convivenza dei contrari che, per mezzo del dialogo, deve servire da supporto alla fraternità universale e all’amicizia sociale. Il modello di una “cultura dell’incontro” (menzionata 6 volte nel testo) e del “dialogo” (menzionato 46 volte) sarebbe San Francesco, che “non faceva la guerra dialettica imponendo dottrine” ma era piuttosto un vero padre nella misura in cui “accetta[va] di avvicinarsi alle altre persone nel loro stesso movimento, non per trattenerle nel proprio, ma per aiutarle a essere maggiormente sé stesse” (n.4).
Oggi, al contrario, “predomina l’abitudine di screditare rapidamente l’avversario, attribuendogli epiteti umilianti, invece di affrontare un dialogo aperto e rispettoso, in cui si cerchi di raggiungere una sintesi che vada oltre” (n. 201). Di fatto, dobbiamo pensare che “le differenze sono creative, creano tensione e nella risoluzione di una tensione consiste il progresso dell’umanità” (n. 203).
Per Papa Francesco, ciò non sarebbe relativismo, in quanto resta valida una verità oggettiva: che ogni essere umano è sacro (n. 207), onde risulta che i diritti umani sono inviolabili (n.209) e un valore permanente, trascendente e non negoziabile (nn.211 e 273). Quanto al resto, “ciò che chiamiamo ‘verità’” (le virgolette sono dell’enciclica) “è anzitutto la ricerca dei fondamenti più solidi che stanno alla base delle nostre scelte e delle nostre leggi” (n.208), per cui “in una società pluralista, il dialogo è la via più adatta per arrivare a riconoscere ciò che dev’essere sempre affermato e rispettato, e che va oltre il consenso occasionale” (n.211). Da lì nasce una cultura dell’incontro che è “uno stile di vita che tende a formare quel poliedro che ha molte facce, moltissimi lati, ma tutti compongono un’unità ricca di sfumature”, “una società in cui le differenze convivono integrandosi, arricchendosi e illuminandosi a vicenda” (n.215). Per questo sono necessari da un lato “la capacità abituale di riconoscere all’altro il diritto di essere sé stesso e di essere diverso” (n. 218) e, dall’altro, “un patto culturale” che implica accettare la possibilità di cedere qualcosa per il bene comune.
“Nessuno potrà possedere tutta la verità, né soddisfare la totalità dei propri desideri, perché questa pretesa porterebbe a voler distruggere l’altro negando i suoi diritti” (n.221). Si tratta del realismo dialogante “di chi crede di dover essere fedele ai propri principi, riconoscendo tuttavia che anche l’altro ha il diritto di provare ad essere fedele ai suoi” (idem) e permette di sognare insieme “come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli” (n. 8).
Per Francesco, questo non è sincretismo né assorbimento di uno nell’altro, ma scommettere sulla “risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto” (n.245), il che sembra una particolare forma di dialettica hegeliana in cui la sintesi permane come un orizzonte irraggiungibile.
È facile constatare che tutto ciò non si armonizza con quanto insegnato da S. Pio X nel condannare il movimento Le Sillon per essersi allontanato dalla dottrina cattolica: “Lo stesso accade per la nozione di fraternità, di cui stabiliscono la base nell’amore degli interessi comuni, oppure, al di la di tutte le filosofie e di tutte le religioni, nella semplice nozione di umanità, comprendendo così nello stesso amore e in un’eguale tolleranza tutti gli uomini con tutte le loro miserie, tanto intellettuali e morali quanto fisiche e temporali. Orbene, la dottrina cattolica ci insegna che il primo dovere della carità non consiste nella tolleranza delle convinzioni erronee, per quanto sincere esse siano, né nella indifferenza teorica o pratica per l’errore o per il vizio in cui vediamo immersi i nostri fratelli, ma nello zelo per il loro miglioramento intellettuale e morale, non meno che per il loro benessere materiale” (n.24, il neretto è mio).
Il tono di relativismo filosofico e di interconfessionalismo religioso di Fratelli Tutti si estende ugualmente alle relazioni tra la Chiesa Cattolica e le altre religioni. Poiché considerano “ogni persona umana come creatura chiamata ad essere figlio o figlia di Dio”, le diverse religioni “offrono un prezioso apporto per la costruzione della fraternità e per la difesa della giustizia nella società” (n.271). In questo aspetto, tutte le religioni sarebbero uguali: “A partire dalla nostra esperienza di fede e dalla sapienza che si è andata accumulando nel corso dei secoli, imparando anche da molte nostre debolezze e cadute, come credenti delle diverse religioni sappiamo che rendere presente Dio è un bene per le nostre società” (n.274).
Anche la Bibbia rientra in questa equiparazione, perché per Francesco tutti “i testi religiosi classici possono offrire un significato destinato a tutte le epoche, posseggono una forza motivante” (n.275). E più avanti aggiunge: “Altri bevono ad altre fonti. Per noi, questa sorgente di dignità umana e di fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo” (n. 277).
Inoltre, Dio non ha alcuna opzione preferenziale per i battezzati in generale (che sono gli unici veri figli di Dio), né per i fedeli cattolici, membri del suo Corpo Mistico, in particolare, ma piuttosto “l’amore di Dio è lo stesso per ogni persona, di qualunque religione sia. E se è ateo, è lo stesso amore” (n.281).
Da questi presupposti religiosi e filosofici – alla ricerca, come si è detto all’inizio, di un minimo comune denominatore per tutti gli uomini – l’enciclica Fratelli Tutti trae principalmente due conseguenze pratiche che daranno origine a un malessere, quando non apriranno una breccia, ancora più grande tra Papa Francesco e una gran parte dei fedeli cattolici: si tratta della promozione dell’immigrazione come condizione per una società aperta e di un governo mondiale per la soluzione dei problemi globali.
Per Francesco, “l’amore che si estende al di là delle frontiere ha come base ciò che chiamiamo ‘amicizia sociale’ in ogni città e in ogni Paese”, condizione per “una vera apertura universale” (n.99). Il suo universalismo non si confonde con una globalizzazione che favorisce “il dominio omogeneo, uniforme e standardizzato di un’unica forma culturale imperante” (n.144), ma che costruisce una società poliedrica “dove, mentre ognuno è rispettato nel suo valore, ‘il tutto è più delle parti, ed è anche più della loro semplice somma’” (n.145). Come nel caso del dialogo, per il papa “una sana apertura non si pone mai in contrasto con l’identità”, perché “arricchendosi con elementi di diversa provenienza, una cultura viva non ne realizza una copia o una mera ripetizione, bensì integra le novità secondo modalità proprie. Questo provoca la nascita di una nuova sintesi” (n. 148).
Per questo bisogna “pensare e generare un mondo aperto” (è il titolo del capitolo 3 dell’enciclica), dove siano in vigore “diritti senza frontiere” (è il sottotitolo di una sezione), poiché “nessuno dunque può rimanere escluso, a prescindere da dove sia nato, e tanto meno a causa dei privilegi che altri possiedono per esser nati in luoghi con maggiori opportunità. I confini e le frontiere degli Stati non possono impedire che questo si realizzi” (n.121). Poiché la destinazione universale dei beni della terra non solo grava la proprietà privata con una funzione sociale – “chi ne possiede una parte è solo per amministrarla a beneficio di tutti” (n. 122) – ma condiziona anche la sovranità delle nazioni sul proprio territorio, per cui “ogni Paese è anche dello straniero, in quanto i beni di un territorio non devono essere negati a una persona bisognosa che provenga da un altro luogo” (n.124).
In realtà, i beni di quel Paese devono essere a disposizione non solo dei bisognosi, perché “è nostro dovere rispettare il diritto di ogni essere umano di trovare un luogo dove poter non solo soddisfare i suoi bisogni primari e quelli della sua famiglia, ma anche realizzarsi pienamente come persona” (n.129). Ciò significherebbe che chiunque si consideri un nuovo Picasso o un nuovo Einstein avrebbe il diritto di esigere di trasferirsi a Parigi o in Massachusetts, per poter sviluppare pienamente i suoi talenti artistici o scientifici nella Écôle des Beau Arts o nel MIT.
Se molti emigrano semplicemente per cercare un futuro migliore rispetto a quanto possano fare nella propria patria, in questa enciclica – a differenza di quanto a volte ha detto, sebbene sommariamente – Papa Francesco non si preoccupa del diritto di ogni Paese di regolamentare il fenomeno migratorio secondo le rispettive possibilità, ma si limita a dire che “l’arrivo di persone diverse, che provengono da un contesto vitale e culturale differente, si trasforma in un dono” e “sono una opportunità di arricchimento e di sviluppo umano integrale di tutti” (n. 133). E insiste: “Gli immigrati, se li si aiuta a integrarsi, sono una benedizione, una ricchezza e un nuovo dono che invita una società a crescere” (n. 135).
Non vi è alcun riferimento al rischio di una immigrazione massiva e destabilizzatrice, come accade attualmente in Europa, dove una forte componente musulmana rifiuta di integrarsi, al punto che il presidente Macron ha dovuto lanciare una iniziativa contro il “separatismo islamico” delle periferie urbane dove nemmeno la polizia può entrare…
Per Francesco, al contrario, ritiene necessario evidenziare il rischio dei “narcisismi localistici”, che “nascondono uno spirito chiuso che, per una certa insicurezza e un certo timore verso l’altro, preferisce creare mura difensive per preservare sé stesso” e “si rinchiude ossessivamente tra poche idee, usanze e sicurezze” (n.146). La vita locale “diventa statica e si ammala” (idem), poiché “gli altri sono costitutivamente necessari per la costruzione di una vita piena” (n.150).
Pertanto le migrazioni non sono solo buone in se stesse, ma “costituiranno un elemento fondante del futuro del mondo” (n.40). La crisi sanitaria del Covid-19, a sua volta, è la grande opportunità per uscire dall’ “autopreservazione egoista”: “Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più ‘gli altri’, ma solo un ‘noi’”, affinché “l’umanità rinasca con tutti i volti, tutte le mani e tutte le voci, al di là delle frontiere che abbiamo creato” (n.35), poiché “la vera qualità dei diversi Paesi del mondo si misura da questa capacità di pensare non solo come Paese, ma anche come famiglia umana” (n.141).
Ma “per rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale” (n. 154) è necessario “far crescere non solo una spiritualità della fraternità ma nello stesso tempo un’organizzazione mondiale più efficiente” (n. 165). In questo contesto, diventa indispensabile “lo sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate” e “dotate del potere di sanzionare”. Non una “autorità mondiale” di tipo personale, ma istituzioni “dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale” (n.172). Poiché il paragrafo seguente è dedicato alla necessità di una riforma dell’ONU, è da intendersi che, nello spirito di Francesco, è a questa organizzazione che spetta esercitare tale ruolo, per cui “occorre evitare che questa Organizzazione sia delegittimata” (n.173).
In una congiuntura dove spuntano all’orizzonte gravissime crisi economiche e sociali, frutto della risposta isterica dell’OMS e dei governi alle sfide del Sars-Cov-2, emerge lo spettro di una dittatura mondiale, prima sanitaria e poi politica. Non si tratta di una prospettiva immaginaria, prodotto di una mente “cospirazionista”, bensì la realizzazione del sogno illuminista di una Repubblica Universale covato nelle logge massoniche già prima della Rivoluzione Francese, indirettamente evocata nell’enciclica tramite la riproduzione della trilogia “Libertà, uguaglianza, fraternità” in uno dei suoi sottotitoli (n.103).
Non è spropositato evocare la Massoneria a conclusione di questa visione generale di Fratelli Tutti. Il numero di gennaio della rivista Nuova Hiram, organo trimestrale del Grande Oriente d’Italia, è stato pubblicato un articolo di Pierluigi Cascioli con un commento sul documento “Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune”, firmato ad Abu Dhabi da Papa Francesco e dall’imam Ahmed el-Tayeb, principale fonte di ispirazione per la redazione della nuova enciclica (n.5), che incorpora vari passi di tale dichiarazione congiunta. Sebbene Pierluigi Cascioli si domandi se il cattolicesimo e l’islam sunnita porteranno la dichiarazione sino alle sue ultime conseguenze (dando pieno accesso alle donne nelle rispettive gerarchie e ammettendo la legittimità delle relazioni omosessuali), riconosce enfaticamente che i due leader religiosi “esprimono posizioni di avanguardia” e che i valori di fraternità universale contenuti nel documento non solo sono compatibili con la fede specifica dei due firmatari, ma che “tali valori sono pienamente condivisibili anche da parte di altri, possono essere perfettamente condivisi da altri, sulla base di un ‘minimo comun denominatore’ costituito dalla ragione”, poiché “ogni singolo essere umano ha una dignità infinita”. Dopo aver insistito sul fatto che “i massoni, che hanno quale baricentro la fraternità, non potranno non confrontarsi con questo Documento”, l’articolista di Nuovo Hiram spiega che quest’ultimo invita ad “adottare la cultura del dialogo come via” (un impegno presente in Fratelli Tutti) e conclude con la seguente domanda: “In applicazione di tale principio, cattolici e sunniti vorranno dialogare con i massoni?”.