Giovannino Guareschi morì, improvvisamente, il 22 agosto del 1968, nella sua piccola residenza estiva di Cervia. Era nato sessant’anni prima a Fontanelle di Roccabianca (PR) e, con Guareschi, muore uno dei più grandi scrittori italiani, profondamente cattolico e anticomunista, di cui era noto il suo attaccamento alla Monarchia e alla Tradizione. “Un uomo fuori del tempo, imprigionato nel XX Secolo” lo definì benevolmente qualcuno, un combattente che riuscì durante la sua vita a mettersi contro l’arroganza del Potere (e il Potere è cattivo e vendicativo): fu incarcerato dai fascisti (ma liberato, immediatamente, da Mussolini) ai tempi del giornale satirico “il Bertoldo” e, poi, con il regime repubblicano, perseguitato dai comunisti e dal “democristianesimo”, l’ideologia “cristiana” liberalmodernista che, come ha riconosciuto onestamente l’on. De Mita, ha trasformato milioni di elettori cattolici in “elettori democratici”, quindi dei poveri “fuchi” rotti al compromesso e pronti a rinnegare ogni principio… come puntualmente hanno fatto i “demo(niaci)cristiani”.
Scrive Marcello Veneziani: «Per comporre la biografia di Guareschi bisogna riconoscere i suoi tre paradossi: dopo due anni nei campi di concentramento nazisti, passò per un fascista; dopo aver vinto la battaglia nel ’48, appoggiando la DC di De Gasperi, finì in galera con la querela del medesimo De Gasperi; dopo aver umanizzato i comunisti, fondò il settimanale più efficace nella lotta al Comunismo e là scrisse il primo libro nero del Comunismo.»
Tornato dalla guerra, dopo due anni di campo di concentramento nazista, coerentemente, nel 1946, Guareschi votò nel referendum istituzionale per la Monarchia, denunziando, poi, quelli che lui chiamerà “i brogli delle calcolatrici dell’Onorevole Romita”, quindi, nel 1948 contribuirà, votando per la “falsa diga” democristiana, a sconfiggere il FDP (Fronte Democratico Popolare), ovvero PCI + PSI, che lui ribattezzò Fronte Democratico Pecorale. Sono rimasti famosi alcuni manifesti da lui stesso creati: “Compagni, nel segreto dell’urna, Dio vi vede Stalin no” e un altro che ricordava i 100.000 soldati morti o dispersi in Russia (allora Unione Sovietica). Lo scheletro di un soldato dell’ARMIR appoggiato a un reticolato di filo spinato che protende il braccio additando Garibaldi, simbolo del Fronte popolare, e la scritta: “Mamma votagli contro anche per me”.
Il Fronte Popolare fu battuto ma la DC di De Gasperi (“un partito di centro che guarda a sinistra”) non andava bene al nostro Giovannino che già nel 1946 aveva scritto sul glorioso “Candido”: «Qualcuno si ostinerà a voler trovare che “Candido” ha vaghe tendenze destrorse, il che non è vero per niente in quanto “Candido” è di destra nel modo più deciso e inequivocabile.»
E su “Candido” si rivelerà il genio guareschiano per cui non possiamo dimenticare le sue vignette: “Contrordine compagni” in cui i compagni da lui disegnati con tre narici (trinariciuto, in quanto la terza narice serviva a svuotare della materia grigia il cervello), si attenevano, alla lettera, agli ordini del loro quotidiano “l’Unità” e, quando c’era un errore di stampa, arrivava, di corsa, il “messo” che annunziava: “Contrordine compagni!” infatti la frase “Bisogna rieducare i compagni insetti” (e, nella vignetta, si vedevano i “Trinariciuti” intenti ad ammaestrare grilli, cavallette e scarafaggi) contiene un errore e quindi va letta: “bisogna rieducare i compagni inetti”.
Nel 1951 esce in Italia il film Don Camillo, di cui Guareschi scriverà il soggetto e la sceneggiatura — scriverà anche quelle delle altre quattro pellicole, ma a causa dei tagli “buonisti”, delle censure e delle mutilazioni volute dal Produttore, ritirerà, sdegnosamente, la firma — che racconta le avventure di un parroco della “Bassa” (don Camillo) e del sindaco comunista (Peppone)… è la vita politica e religiosa che si svolge, all’ombra del campanile e della torre civica; personaggi che Guareschi “deideologicizza” cogliendoli nella loro umanità, personaggi vivi e palpitanti che ci ricordano la vita dei nostri paesi, delle nostre contrade, delle nostre campagne, quando ancora ci si toglieva il cappello per salutare, si rispettava il “sacro”, si dava del “lei” e non del “tu” e i “comunisti” erano “sovversivi” fuori ma, conservatori, al pari degli altri, in famiglia… ancora esisteva la famiglia.
Il libro e il film di don Camillo ebbero e hanno tuttavia un meritatissimo, grandioso successo e che pareva imprevedibile allora. Don Camillo fu tradotto in tutte le lingue… persino il Pontefice, Giovanni XXIII, proporrà all’autore di comporre il Catechismo della Chiesa Cattolica con i propri racconti e le proprie vignette; ma lo scrittore della Bassa non accettò, non si ritenne all’altezza di trattare temi così alti… e anche l’umiltà fu una delle caratteristiche del Nostro.
Questo suo successo di pubblico (milioni le copie vendute dei vari volumi delle avventure “camilliane”) rese ancor più indigesto l’autore, non solo ai “pesci rossi dell’acquasantiera”, ma perfino a coloro che, invece, avrebbero dovuto apprezzarlo, ma furono (e sono) presi dalla gelosia; e allora cominciarono a dire che Guareschi “banalizzava la realtà” e, detti “cazzerellini tutto pepe e sale”, decretarono che non potevano seguire un uomo che riduceva il linguaggio a “poche e colorite frasi” e il cui impegno si riduceva al motto: “Dio – Patria – Famiglia”… mentre i loro cervellini pensavano (verbo troppo impegnativo il pensare!) alle nebbie del Nord e alle corna di Odino, a Maometto e al paradiso musulmano dove “gli untorelli della falsa destra”, avrebbero fatto quello che non avevano e non hanno fatto in vita: scopare vergini e urì in mezzi al verdeggiante paesaggio, dove scorrevano fiumi di biondo miele e di ambrosia.
Nei libri di Giovannino Guareschi vi ritroviamo la vita del “dopoguerra”. Vengono raccontati quegli episodi della “guerra civile” che insanguinò l’Italia, e Giovannino Guareschi pur narrando, senza veli, quei truci e sanguinosi episodi, ha parole di pietà per i vivi e per i morti: «Fratelli, si parla di dialogo tra chi sta sulle opposte sponde. Queste anime che noi ricordiamo stanno sulla sponda della morte e parlano a noi che stiamo sulla sponda della vita. Ascoltiamo ciò che ci domandano e il nostro cuore troverà la giusta risposta. Amen.»
E, profeticamente — lui che morì all’alba della Rivoluzione Sessantottarda — capirà la grande portata della medesima e metterà in guardia i giovani dai “cattivi maestri”: «Protesto perché nessuno dice a questi giovani: diffidate di chi vi sorride e vi dà importanza eccezionale. Vuole rifilarvi un giornale, un libro, un disco, una rivista pornografica, un intruglio gassato, una chitarra, un allucinogeno, una pillola, una scheda elettorale, un cartello, un manganello, un mitra. Protesto perché sono stato giovane e buggerato come saranno irrimediabilmente buggerati i giovani d’oggi…»
Tra don Camillo e Peppone, e gli altri eccezionali personaggi che fan loro da corona, anche dopo ardue baruffe si trova sempre la “quadra”… è il cuore a prevalere sull’ira, sull’odio, sull’orgoglio e, lo abbiam detto, sull’ideologia… ma un’altra, ben più grave rivoluzione si era già abbattuta sulla Chiesa, quella del Concilio Vaticano II, come ebbe a dire il “rosso” cardinale Suenens: «Il Concilio Vaticano II è stata la nostra rivoluzione, il Sessantotto della Chiesa.»
Ma qui non c’è Peppone, lo Smilzo, il Brusco, la Gisella a competere con il povero prete di campagna, qui c’è don Francesco — ahimè, ahimè questo Francesco — detto “Chichì” che è «un pretino progressista e sculettante — scrive Alessandro Pronzato — della nouvelle vague in giacchetta e cravatta (…) lustrato a dovere; munito di spiderino rosso, allevato artificialmente ingozzando formule e slogan, portatore di istanze sociali, fautore di una teologia che si è sbarazzata di tutto il vecchiume (…) tarantolato dalla smania delle riforme (…) assume con evidente compiacimento posizioni di avanguardia, propugna idee “aperte”… Parola d’ordine: “Demistificare”… buttare in soffitta il ciarpame devozionale, lottare contro la superstizione, mettersi al passo con i tempi, dialogare con i lontani… Fa di tutto per apparire anticonformista, controcorrente (…) Di fatto, tuttavia, il vero anticonformista è don Camillo. Le mode non lo toccano. I suoi modi ruvidi risultano come al solito efficaci.»
Sì, insomma un Francesco (don Chichì) supponente e carico d’orgoglio, così carico di risentimento e di odio per il passato della Chiesa, un odio che lo acceca e gli fa vedere ovunque “reazionari” in agguato, anche nell’umile vecchietta che accende il suo lumino in chiesa.
Guareschi ne ha passate tante ma non è mai stato con le mani in mano: nel 1954 inizia il processo “De Gasperi – Guareschi”, infatti quest’ultimo aveva pubblicato sul settimanale della Rizzoli da lui diretto, due lettere attribuite a De Gasperi in cui l’arcigno politico di Trento avrebbe chiesto al Comando inglese di bombardare Roma per “per infrangere l’ultima resistenza morale del popolo romano”. Naturalmente il Direttore di “Candido” non fece la cosa a cuor leggero: aveva fatto fare alle due lettere un’accurata perizia a un illustre personaggio, il dottor Umberto Focaccia, perito dello stesso tribunale di Milano il quale: «… dopo un lungo, attento e scrupoloso esame di confronto con molti altri iscritti sicuramente di De Gasperi…» non poté che dichiarare: «In piena coscienza di riconoscere per autentiche del De Gasperi la scrittura del testo e la firma di cui sopra.»
Il Processo per “direttissima”, meglio sarebbe parlare di “esecuzione”, doveva essere veloce e la Corte negò la perizia calligrafica e chimica delle due lettere, in quanto si opposero gli avvocati del politico trentino come si opposero, ritenendole inutili, a tutte le altre deposizioni potenzialmente favorevoli al Direttore del “Candido”. Guareschi fu condannato a 22 mesi di reclusione. Dopo il primo processo un altro ne fu fatto, da altro Collegio, che avrebbe dovuto pronunziarsi sul “falso”… ma il Collegio decise che non c’era nulla da decidere se non la distruzione del “corpo del reato”… giustizia allegra!
Giovannino Guareschi non chiese sconti, non chiese la “grazia”: era stato due anni nel lager nazista; starà due anni in quelli “democratici repubblicani”, ma è amareggiato e avvilito, commenta con il suo Dante: «… e il modo ancor m’offende… No, niente Appello. Qui non si tratta di rifondare una sentenza, ma un costume… Accetto la condanna come accetterei un pugno in faccia», e porta con sé, nella sua cella, anche lo “spirito” di don Camillo e di Peppone, e continuerà, chiuso in gattabuia, a far scriver ai due le loro storie, tanto, esclama: «Nella mia cella è sempre primavera: il guaio è che è primavera anche fuori…»
«Ci sono stato io in galera, ci può stare Guareschi», commenta “misericordiosamente” Alcide De Gasperi.
In carcere nulla gli fu risparmiato: «Domani farò un’istanza al Ministero — scriveva l’illustre prigioniero — acciocché mi autorizzi per il 1° maggio, a compiere i 47 anni. Scriverò pure un’istanza al Procuratore della Repubblica per ottenere due paia di mutande pulite ogni settimana.»
Esce dal carcere profondamente provato nel corpo (si aggrava l’ulcera di cui soffriva e arrivano gravi problemi cardiocircolatori… per cui dovrà andare per un non breve periodo di tempo a curarsi in una clinica svizzera) ma Giovannino è ancor più provato nell’animo anche se aveva scritto e lavorato senza aspettarsi la riconoscenza di nessuno… figuratevi quella degli ibridi democristiani che, a lui, dovevano la vittoria del 1948. Guareschi uscì dal Carcere di San Francesco del Prato (Parma), dove era entrato nel maggio 1954, nel luglio del 1955, dopo 409 giorni di carcere… altri sei mesi dovrà scontarli in libertà vigilata.
Nel 1957 lascerà la Direzione di “Candido” pur continuando a collaborarvi: quando nel 1961 uscì Don Camillo Monsignore… ma non troppo lontano dalla spirito “guareschiano” cessò la collaborazione con la Rizzoli e Angelo Rizzoli, nonostante avesse fatto le sue fortune, con lo scrittore della Bassa, chiuse anche il “Candido”.
Giovannino fu chiamato a “La Notte” da Nino Nutrizio e anche da “Oggi” in cui, settimanalmente, scriveva lo spassoso “Corrierino delle Famiglie”, poi cura una rubrica su “Il Borghese” di Mario Tedeschi e, nel 1968, fu chiamato di nuovo al “Candido” che aveva ripreso Giorgio Pisanò, ma morì prima di cominciare la collaborazione, come abbiamo detto, a Cervia.
Negli ultimi anni si era battuto contro la Rivoluzione conciliare e rimane un pezzo famoso, da antologia, scritto da Giovannino: “La Messa Clandestina” in cui è lui a scrivere al “suo” don Camillo esautorato dai nuovi barbari dell’iconoclastia conciliare:
«(Don Camillo) potrà celebrare una Messa Clandestina per pochi Suoi amici fidati. Una Messa in latino, si capisce, con tanti oremus e kirieleison. Una Messa all’antica, per consolare tutti i nostri Morti che, pur non conoscendo il latino, si sentivano, durante la Messa, vicini a Dio, e non si vergognavano se, udendo levarsi gli antichissimi canti, i loro occhi si riempivano di lacrime. Forse perché, allora, il Sentimento e la Poesia non erano peccato e nessuno pensava che il dolce, eternamente giovane volto della Sposa del Cristo potesse mai mostrare macchie o rughe. Mentre Essa si presenta a noi dal video profano, col volto sgradevole e antipatico del Cardinale Rosso di Bologna (Lercaro, n.p.c) e dei suoi fidi attivisti, gentilmente concessi alla Curia dalla locale Federazione Comunista. Don Camillo tenga duro: quando i generali tradiscono abbiamo bisogno più che mai della fedeltà dei soldati. La saluta affettuosamente il suo parrocchiano Giovannino Guareschi.»
Il Caporione comunista Palmiro Togliatti definì Guareschi: «Tre volte idiota, moltiplicato per tre» ma Giovannino definì l’espressione: “un ambito riconoscimento”, in precedenza il giornale dell’Azione (non) Cattolica le cui firme saranno, in seguito, il “Gotha” del Cattocomunismo aveva definito lo scrittore della Bassa uno scarafaggio e che a stringergli la mano «non si poteva non avere un senso di nausea»… altra onorificenza che giunse, in contemporanea, con la gradita nomina di Re Umberto, dal suo esilio di Cascais, a Grand’Ufficiale della Corona d’Italia.
“L’Unità”, il giornale dei Trinariciuti rossi, scrisse all’indomani della sua morte: «Malinconica fine di uno scrittore che non era mai nato.» La Televisione di regime — che per trent’anni si rifiutò di presentare i suoi film che, poi, toccheranno vette di ascolto mai raggiunte da nessuna pellicola — dedicò pochi secondi all’annunzio della sua morte, lo stesso fece la grande stampa.
Baldassarre Molossi, Direttore de “La Gazzetta di Parma” scrisse: «Guareschi ha avuto la sfortuna di morire in Italia…» e fu uno dei pochi giornalisti che parteciparono alla “sepoltura” che avvenne, in una giornata buia e piovosa del mese di luglio… non c’erano vip, né grossi Papaveri, né intellettuali radical chic. Erano presenti nel piccolo cimitero di Brescello, insieme ai due figli (la moglie Ennia non si sentì di assistere alla tumulazione) oltre al Molossi, Enzo Biagi, Carlo Manzoni, Giovanni Mosca, Nino Nutrizio, Enzo Ferrari… c’era anche, con le lacrime agli occhi, il sindaco socialista di Fontanelle di Roccabianca, il paese natale di Giovannino. E gli amici “del bar”.
Ma ogni giorno, in attesa di rivederlo in Paradiso, noi Giovannino — e con lui i suoi personaggi — lo abbiamo incontrato, nei suoi racconti, nelle sue storie, in famiglia con i nostri nipoti, nelle scuole con i nostri alunni, nelle Università con gli studenti che ancor oggi si commuovono rivedendo quel “mondo pulito”, quel pugnello di case e quelle vite agitate che, sembrava, volessero tener stretto, nei loro pugni, un po’ di quel cielo della Bassa.
Per quella tua vita pulita e onesta, per quella tua battaglia generosa e senza sosta per la Tradizione, per quelle ore liete che ci hai fatto trascorrere con i nostri ragazzi sulle pagine dei tuoi libri e davanti allo schermo del cinema, non possiamo che ringraziarti, come un amico caro e fraterno. “Ad Deum”.