di Vittorio Acerbi
“Guarda come Marcello avanza glorioso di spoglie, e vincitore sovrasta tutti i guerrieri. Questi, cavaliere, sosterrà lo Stato romano e nelle ansie d’un grave cimento prosterà i Punici e i Galli ribelli. […] O giovane degno di compianto, se vincerai gli aspri fati, tu sarai un Marcello. Versate gigli a piene mani; ch’io sparga fiori purpurei, e ricolmi almeno con questi doni l’anima del nipote, e assolva l’inutile onore.”
(Virgilio – Eneide)
“Nomen omen”. Espressione latina del commediografo Plauto (“nomen atque omen”) che potremmo tradurre: “un nome, un destino”. E siccome questa è la storia di un uomo che non ha compiuto il volere degli uomini, bensì il volere di Dio, ecco come Luigi ha saputo cambiare una vocale a quel “destino” per renderlo più confacente alla volontà divina.
Pur non essendo io genitore, penso a quanto possa essere difficile essere genitori. Difficile educare dei figli ai valori cattolici quando assistiamo alle derive depravate di questo mondo. Ancor più arduo aiutare (passivamente, ben inteso; la parte attiva lasciamola a Nostro Signore) questi figli a compiere la volontà di Dio sulle loro vite. Quante volte assistiamo a genitori che dirigono in tutto la vita dei figli, ponendo un freno al disegno vero delle loro vite. Quante vocazioni mancate per il soffocamento dei genitori. La miglior medicina a questo pericolo è, senza dubbio alcuno, la preghiera e l’affidamento alla Provvidenza. Eppure oggi nelle famiglie non si prega più e il metro di Dio è sostituito dal metro dell’uomo.
Questo sembrava essere lo stesso esito del piccolo Luigi Gonzaga; alla fine, così non sarà…
I genitori di Luigi si conobbero alla corte di Madrid nel 1565. Ferrante Gonzaga di anni ventitré; Marta Tana (damigella preferita della regina di Spagna Elisabetta di Valois) di anni venti. Ferrante Gonzaga Marchese di Castiglione delle Stiviere e Marta, figlia di Baldassare Tana Conte di Santena e Anna della Rovere. I due si sposano il 15 novembre 1566. Nella notte del 9 marzo 1568 nasce il primogenito. È un parto difficile e la paura che il piccolo non sopravviva è molta. Fu allora che la marchesa fece voto alla Madonna: “Se campava, d’andare alla Santa Casa di Loreto, e di menarvi
anche il figliolo, se nascendo sopravvivesse. Fatto il voto, cessò il pericolo” (P. Virgilio Cepari S. I. – Vita di san Luigi Gonzaga). Al momento della nascita viene battezzato dalla levatrice; l’atto solenne di battesimo datato 20 aprile 1568 è conservato nell’archivio parrocchiale della chiesa dei SS. Nazario e Celso. A lui sarà dato, secondo la volontà del padre, il nome di Luigi, la cui etimologia significa “glorioso in battaglia”, suggerendo già la volontà di Ferrante di farne condottiero. Ma questa, come anticipato, è una storia di Dio, non dell’uomo…
All’alba del 10 marzo le artiglierie della Rocca sparano a salve per salutare l’erede del marchese.
Il contesto familiare appare segnato da una marcata contradditorietà. Da un lato la profonda influenza esercitata dalla madre Marta, di animo buono e sincera fede che faceva leggere al figlioletto le lettere provenienti dalle lontane regioni raggiunte dalle missioni gesuitiche. E saranno proprio i gesuiti ad attrarre questo giovane desideroso di offrirsi a Cristo. Senza san Francesco non avremmo sant’Ignazio e, senza sant’Ignazio, non avremmo san Luigi. Non è forse questo l’operare della Provvidenza? Provvidenza che altro non è se non il vero metro di Dio che sa sconvolgere il tempo (come lo percepiamo noi) e che guarda solo all’eternità.
La madre Marta insegna a Luigi “a segnarsi con la croce, a recitare il Pater noster e l’Ave Maria; riusciva tanto divoto, che dalla chiarezza di quell’aurora si poteva raccogliere, quanto dovesse essere grande lo splendore del suo mezzogiorno. In lui vi era grandissima divozione e timor di Dio; quando vedeva i poveri voleva far loro le limosine e, appena appreso a camminare da sé, si nascondeva in qualche luogo remoto per fare orazione”. Donna Marta si rivelerà davvero la donna forte della Bibbia. Dovrà sopportare la morte violenta di due figli, del marito, fino alla gioia indicibile di vedere Luigi salire alla gloria dei santi (“Una donna virtuosa chi la troverà? Il suo pregio sorpassa di molto quello delle perle” Pr 31, 10).
Dall’altro lato il padre Ferrante, uomo orgoglioso e severo, immaginava per il figlio una brillante carriera diplomatica e militare al servizio dell’impero. Luigi quindi fu fatto gradualmente entrare in quel mondo nobile e dorato, spesso corrotto e corruttore, dove regnava il culto delle banalità, dell’apparenza e della vanità. Ferrante lo educa alla vita militare, sogna di farne un soldato forte e principe saggio. Nel 1573 Luigi ha solo cinque anni e viene condotto a Casalmaggiore, al campo dove si prepara la spedizione contro i pirati turchi fuggiti a Lepanto e rifugiatisi da tempo a Tunisi. Luigi si pavoneggia nella piccola armatura regalatagli dal padre; impara le volgari imprecazioni dei soldati; mulina la sua spada sognando di essere un condottiero vittorioso al comando di un valoroso esercito. Quell’attrattiva per le armi e la guerra rischia di procurargli severi danni: per poco non si brucia la faccia sparando con un archibugio e durante una notte ruba della polvere da sparo e fa partire un colpo di cannone che per poco, nel rinculo delle ruote, non lo travolge. Di fronte a questi episodi don Ferrante non può fare a meno di riprenderlo e punirlo, anche se dentro di sé è felice per l’inclinazione che Luigi sta prendendo.
All’età di sette anni, Luigi e il fratello minore, Rodolfo, accompagnano il padre malato di gotta a curarsi a Bagni di Lucca. Nel visitare la città di Lucca, il piccolo Luigi ha occasione di pregare davanti al Volto Santo di Cristo. Terminata la cura, gli uomini di casa Gonzaga decidono di rientrare passando attraverso la ridente val di Nievole, Pistoia e Prato.
E, proprio per la paura della peste che veniva da nord, i doganieri fermarono i viandanti. Così per la quarantena dovettero scegliere come base la villa fiesolana di Fontanella, proprietà di Jacopo del Turco, cugino di Pierfrancesco che fu precettore di Luigi e Rodolfo; educatore affezionato e stimato in casa Gonzaga.
Successivamente don Ferrante, ben accolto dal granduca Francesco de’ Medici (che aveva conosciuto a Madrid), a Firenze, affitta un appartamento presso il “tiratoio” della Catena, attuale via degli Alfani 34. Il precettore del Turco testimonia come in questo periodo poté osservare il carattere irascibile del piccolo Rodolfo che si lascia spesso andare a capricci e del padre che, per giunta, si lascia andare al gioco d’azzardo perdendo molti ducati. E del piccolo Luigi che si dice? I due anni che il giovane trascorre a Firenze sono cruciali per la sua vita. Non ha una salute di ferro né un fisico da atleta, ma è un ragazzo intelligente e volitivo che sa il fatto suo. Nella chiesetta di San Giovannino (San Giovanni Evangelista) appartenente al Collegio dei gesuiti, attiguo a palazzo Medici-Riccardi, nell’accostarsi alla prima confessione (si pensa che il primo confessore fu il gesuita Francesco della Torre), Luigi sviene per la vergogna dei suoi peccati. E quali mai peccati può aver commesso un bambino tanto da svenire? Le parolacce imparate dai soldati! Noi siamo abituati a pensare che un bambino non possa commettere peccati gravi (non gravi come gli adulti almeno), eppure questi sono i primi segni della santità del suo animo che sa vergognarsi così tanto dei peccati che anche il suo essere bambino poteva commettere.
Benchè lontano da mamma Marta, Luigi si sente spiritualmente ispirato e sostenuto dalla sua madre celeste. Non invano aveva a lungo meditato “I misteri del Rosario” del gesuita p. Gaspare Loarte e lì capisce una grande verità di se stesso. La Madonna si consacrò tutta a Dio, Luigi si consacrerà tutto a Maria!
Dopo la morte della granduchessa Giovanna d’Austria (11 aprile 1578) Luigi si rende sempre più conto dei drammi nascosti nella nobiltà. La storia dei Medici (e dei Gonzaga) è seminata di passioni, di sangue, di delitti. Percepisci quindi la puzza emanata da questa nobiltà. E benché al funerale solenne della granduchessa Giovanna d’Austria nessuno la senta, Luigi capisce che vuole essere solo di Dio e profumare per Lui quando arriverà l’ora della sua morte fisica.
(La presenza del peccato mortale è simile ad un topo morto nella vostra camera, luogo simbolo della nostra anima, che sta marcendo sotto il letto. Provate ad entrare in una camera dove, dopo giorni, sta marcendo un topo morto. Non riuscirete ad aprire la porta tanto è il ribrezzo della puzza che si è propagata. Chi porta nella propria anima il peccato mortale non sta portando un cesto di fragole. Immaginatevi se i santi sentivano l’odore dei peccati, quanto più sarà capace Dio di sentirne l’odore quando ci presenteremo a Lui. Non è un caso che il corpo di Padre Pio dopo la sua morte profumasse di rosa; ecco cosa vuol dire profumare per Dio che già il giovane Luigi aveva ben compreso).
Mentre i suoi occhi vispi di ragazzo si rendono conto di questi aspetti, una grande luce entra nel suo cuore; la sua coscienza intuisce un possibile pericolo futuro. Luigi fa quindi la scelta radicale che cambierà la sua vita per sempre. Volendo rispettare la sua fedeltà alla Madonna, il giorno 15 agosto 1578, si trova nella chiesa della Santissima Annunziata e, in preghiera di fronte all’affresco miracoloso, gli appare un angelo a rendere testimonianza della sua intenzione: fa voto di castità perfetta. Qualche secolo dopo un giovane Gerardo Maiella, durante una processione mariana, volendo definitivamente abbracciare la sua vocazione, si avvicina alla statua della Madonna mettendole un anello al dito con le parole: “Eccomi fidanzato con la Madonna!”
“I casti sono i fiori che abbeliscono il giardino dello Sposo celeste” (San Cipriano)
La bellezza dei santi sta proprio in questo: essersi pienamente affidati alla Provvidenza che ha saputo indicare la strada vera della loro vita. Ogni santo ha senza dubbio la sua storia ed ognuna differisce senz’altro in qualcosa, ma quale è l’elemento che accomuna tutti i santi? Che non vi era alcuna dimensione personale nella propria vita; lentamente avevano saputo abbandonare il proprio “io” egocentrico per essere (e restare!) in unione con Cristo. Luigi ha dieci anni e fa un giuramento così solenne di fronte a se stesso e alla Madonna. Proviamo a riflettere ad un giovane che fa una scelta così radicale sulla propria vita offrendola a Dio: nemmeno lo prenderemmo sul serio. E quante vocazioni si perdono nel tempo…
Inserito fin dalla più tenera età in ambienti cortigiani, ha potuto osservare come la dimensione erotica venisse spesso esibita e sfruttata per raggiungere, attraverso le vie tortuose della seduzione e del raggiro, obiettivi politici e personali di prestigio e potere. Doppie parole e doppie promesse, anzi una doppiezza elevata a sistema di vita. In un simile contesto Luigi ha scelto la via della semplicità e della trasparenza, di quella purezza che è verità di se stessi e delle cose. La sua castità, quindi, è innanzitutto integrità! Un vivere “secondo l’intero”: corpo e anima unificati e non sbriciolati in mille pulsioni disordinate e caotiche, senza maschere, falsità ed ipocrisie. In un clima sociale che induce i giovani, e non solo loro, a dare poco peso alle parole e alle promesse, egli richiama il valore della castità quale antidoto ad una sessualità banalizzata, mercificata, ridotta ad un gioco effimero di corpi senz’anima, all’espressione di un bisogno di intimità senza impegno, ad un istante di piacere senza alcuna cura per l’altro. Luigi ha intuito che ciò che viviamo nel corpo e con il corpo non è mai senza effetto e conseguenze ma, anzi, sono proprio queste esperienze a lasciare una traccia nella profondità del nostro essere, come vitalità e come angoscia. In virtù della nostra fede cristiana, siamo quindi chiamati a contribuire a scrivere una nuova pagina sociale e culturale circa il maschile e il femminile, tratteggiando un’autentica spiritualità della corporeità e della sensibilità.
Cessato il pericolo della peste, Luigi e Rodolfo possono rientrare assieme al padre che nel frattempo (siamo nel 1579) viene insignito da Sua Maestà Cesarea del titolo onorifico di principe del Sacro Romano Impero e riceve la nomina a governatore del Monferrato Don Ferrante decide di inviare i due figli per un semestre (da novembre 1579 a maggio 1580) presso la corte di Mantova. In estate Luigi è a Castiglione e in quel periodo ha l’occasione di conoscere il cardinale Borromeo che sta passando in visita. Luigi dodicenne fa gli onori di casa offrendo di ospitare il cardinale che, al contrario, preferisce prendere alloggio presso il parroco arciprete Giangiacomo Pastorio. Nel colloquio che i due hanno, il cardinale intuisce la profondità spirituale del marchesino e il 22 luglio 1580 gli amministra la Prima Comunione. Luigi in quel tempo leggeva e meditava su due scritti: la Summa doctrinae christianae di Pietro Canisio e le lettere che i missionari gesuiti scrivevano regolarmente dall’India. Il cardinale, oltre ad esortarlo di comunicarsi spesso, gli suggerisce la lettura del Catechismus Romanus del Concilio di Trento (Pio V). Ma Luigi non è solo un ragazzo che legge libri devoti; cresce e sa il fatto suo; si apre agli altri, fa lezioni di catechismo, sa intervenire nelle conversazioni dei grandi.
Nel 1581 il re di Spagna invita personalmente don Ferrante ad accompagnare a Lisbona sua sorella Maria d’Austria, vedova di Massimiliano II; l’imperatrice chiede espressamente la presenza di donna Marta che decide di affrontare il viaggio col marito e i suoi figli, Luigi, Rodolfo e la piccola Isabella (nata nel 1574). Durante il viaggio Luigi ha l’occasione di pregare nell’austero santuario mariano di Monserrat (Monte segato) sopra Barcellona; forse avrà avuto un pensiero per il maestro Ignazio, fondatore della Compagnia di Gesù (il santo vi era passato sessanta anni prima da pellegrino penitente). Nella sontuosa corte madrilena si Sua Maestà Cattolica, Luigi e Rodolfo sono nominati menini (paggi d’onore) del principino don Diego (per l’occasione si ricorda un episodio secondo il quale durante una giornata particolarmente ventosa, il principino che già aveva assimilato tutta l’alterigia dei potenti comandò: “Vento, ti comando di non molestarmi!”, al che Luigi, violando ogni regola di etichetta, osò richiamarlo: “Vostra Altezza può comandare agli uomini e sarà obbedito; ma agli elementi comanda Dio solo, cui anche Vostra Altezza deve obbedire”. Nel maggio 1582 ad appena sette anni, il principino Diego si ammala di vaiolo e morirà il 21 novembre seguente; Luigi commosso ne accompagnerà la salma all’Escuriale. Nel settembre dello stesso anno nacque l’ultimo fratellino di Luigi che prese,
per l’appunto, il nome Diego).
A Madrid Luigi prosegue gli studi superiori ed entra in contatto con alcuni padri gesuiti, legge il compendio di vita spirituale del domenicano Luigi da Granada (uno dei primi scrittori che abbia formulato un metodo di orazione per laici). Proprio nella tronfia corte di Madrid, Luigi riceve la grazia di vedere più chiaro nella sua vocazione religiosa, germinata ormai da anni sulla prima ispirazione di non sposarsi; davanti alla Madonna del Buon Consiglio nella chiesa del Collegio della Compagnia di Gesù, il 15 agosto 1583, nel ringraziamento alla Comunione, si sente definitivamente deciso a farsi gesuita.
La madre è contenta; il padre oppose grosse e prevedibili difficoltà; Luigi fa valere le sue ragioni e scappa da palazzo. Deve intervenire due volte il dottor Sallustio Petroceni, legale di casa Gonzaga, che va a trovarlo nel collegio dei gesuiti. A sbrogliare la questione ci pensa il confessore di Luigi, padre Ferdinando Paternò, che suggerì di rimandare la decisione al rientro in Italia.
La compresenza dei due poli, materno e paterno, opposti ma entrambi significativi, ha portato il giovane Gonzaga ad immaginare per se stesso un itinerario nuovo ed inedito alla ricerca di un “di più” rispetto a quanto avrebbe potuto facilmente avere nel presente e possedere nel futuro. A lui meglio di altri sembra adattarsi la parabola evangelica in cui il regno dei cieli viene paragonato ad “un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra” (Mt 13, 45-46). Secondo la logica mondana egli disponeva già di molte di queste perle preziose: il sangue nobile, la ricchezza, l’intelligenza. Ma anch’egli, come il mercante del Vangelo,
avendone trovata una unica e di incommensurabile valore, ha deciso di possederla e, per farlo, di abbandonare tutte le altre.
Per far piacere al padre, Luigi è capace di stare alle regole del gioco diplomatico e tiene in latino un brillante discorso davanti a Filippo II (29 marzo 1583), ma il suo cuore è distaccato da tutte le ricchezze del mondo. Luigi ha ormai sedici anni e mezzo; è fermamente convinto a passare “il resto della sua vita in una religione” ove non si accetta né mitria né porpora. Luigi aveva incominciato a misurare tutto con un metro molto chiaro: quanto vale questo lusso sfarzoso per l’eternità? Quanto c’era di cristiano in tutto ciò? E perché altri, in nome della stessa fede, compivano scelte così radicalmente diverse? Ed è proprio alla corte di Spagna che conosce meglio un altro nobile: Ignazio di Loyola. E, nell’ottobre 1582, mentre Luigi si trovava là, un’ondata di commozione aveva pervaso anche la corte di fronte alla notizia del trapasso di madre Teresa d’Avila, indomita riformatrice dell’ordine carmelitano. Anche nella sua stessa famiglia Luigi poteva trovare esempi di persone che avevano saputo compiere scelte controcorrente. Forse aveva sentito parlare di Cecilia, figlia di Gianfrancesco primo marchese di Mantova, la quale rifiutò il marito scelto per lei, desiderosa di ritirarsi in convento e, prima di dar corso al suo proposito, ebbe la costanza di attendere fino alla morte del padre che vi si opponeva. E conosceva certo la storia del cugino Annibale, paggio del re Filippo II che aveva rinunciato a brillanti prospettive per cambiar vita e farsi frate.
Luigi meditava molto e giunse ad una risoluzione: la via per la quale Dio lo chiamava e farsi santo era quella di una vita interamente consacrata in un ordine religioso. L’attuazione non era semplice per due motivi. Il primo era la scelta dell’ordine. Come già detto, alla fine decise per la Compagnia di Gesù. I gesuiti infatti presentavano una particolare attrattiva: non potevano accedere a cariche ecclesiastiche, se non costretti dall’obbedienza al papa. Nel caso di Luigi si può ben comprendere: che senso aveva rinunciare agli onori del mondo per poi “far carriera” nella Chiesa? Prima di giungere a questa scelta, dentro di sé stava valutando anche l’ordine carmelitano e pure quello cappuccino.
Il secondo problema era certamente quello più difficile: affrontare il padre.
Accade spesso che i giovani siano in conflitto con la famiglia: di solito poi, quanto più i loro desideri sono ostacolati, tanto più ci si aggrappano e, per realizzarli, strepitano, protestano, minacciano, fanno gli offesi, e talvolta ricorrono a gesti inconsulti, a “colpi di testa”, per poi magari cedere rassegnati a cambiare l’oggetto del loro desiderio con un altro meno faticosamente raggiungibile. Nulla di tutto ciò nel giovane Luigi: il padre ricorse ad ogni mezzo per dissuaderlo e trascinò la cosa per anni, con l’evidente intento di logorarne la resistenza del figlio; questi, però, si mantenne saldo nel suo proposito, senza deflettere, ma anche senza strepitare, con sommo rispetto per l’autorità paterna, con la calma e la pazienza di chi è sicuro di sé e non ha bisogno di sbraitare per far valere le proprie ragioni. Oltre due anni durò l’opposizione del marchese Ferrante, variamente modulata sui toni dell’ira, delle minacce, del mutismo, dei discorsi affettuosi e suadenti. Don Ferrante sul primogenito aveva costruito il futuro dei suoi domini e aveva fatto il possibile per prepararlo a compiti principeschi.
Il viaggio di ritorno da Madrid avvenne nell’estate del 1584 e fu compiuto per nave da Barcellona a Genova. Nel golfo del Leone, la nave fu attaccata dai pirati e occorse tutta la perizia dell’ammiraglio per evitare l’abbordaggio e la cattura. Prima di lasciare Madrid, il padre promette a Luigi di lasciarlo libero nelle decisioni e pur non annullando la sua promessa, tentò la dissuasione con ogni mezzo. Affermò che l’addio al mondo doveva essere preceduto da visite di commiato ai signori cui lo legavano vincoli di parentela ed amicizia. Era questo un buon pretesto per rinviare la decisione, con la malcelata speranza che il contatto con le diverse corti inducesse il figlio a cambiare i suoi progetti e inserirsi in quel mondo che, per nascita, era anche il suo.
Per Luigi e per Rodolfo che l’accompagnava fu preparato un corredo di sontuosi abiti principeschi. Luigi non li indossò mai, preferendo un semplice completo di saietta nera fiorentina.
Da qui inizia il suo giro delle corti. Comincia da Mantova per ossequiare il duca Guglielmo col figlio Vincenzo;
seguono poi le corti di Ferrara, Parma, Firenze e Torino. Proprio in questa ultima meta si ritrova ad un ricevimento assieme ad altri giovani e sentendo un gentiluomo vecchio fare dei discorsi scandalosi e disonesti, Luigi non si curò né dell’etichetta né delle possibili reazioni riprendendolo senza mezzi termini.
Nel girovagare in queste corti, l’obiettivo del padre è che Luigi si innamori di qualche nobile damigella; ma Luigi sembra passare senza guardare; il suo cuore è altrove; sogna lontane missioni in India, sogna la Compagnia di Gesù per dedicarsi all’educazione dei giovani nei collegi.
“Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neppure Salomone con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro.” (Mt. 6, 28-30)
Finito il giro delle corti, Luigi torna a Castiglione senza che il viaggio lo abbia minimamente scalfito.
La questione col padre adesso si fa difficile e si risolverà non senza fatiche.
Luigi adesso vuole affrontare la questione e don Ferrante cerca mediatori fra cui: il duca Guglielmo, lo zio Alfonso, l’arciprete Pastorio e il predicatore francescano padre Panigarola. Luigi non cede e prendendo alla lettera una sfuriata del padre, scappa di casa e si rifugia presso i frati zoccolanti del convento di Santa Maria (agosto 1584).
Alla fine Luigi rientra al castello, si rinchiude nella sua stanza: prega, piange, si flagella. Il marchese non crede ai suoi occhi vedendo tanta determinazione e mortificazione. Luigi aveva acquisito una lucida e non superficiale conoscenza del mondo e delle prospettive offertegli dalla sua posizione sociale. Le sue decisioni non avrebbero resistito a tanti attacchi se fossero state frutto di capriccio o di banale infatuazione. Egli agì con la virile determinazione di chi ha compiuto le sue scelte senza stancarsi, senza arrendersi; persegue lucidamente la sua meta affrontando e superando ogni ostacolo. Se avesse impiegato tante energie, tempo ed acume intellettuale in vista di un miglioramento della sua posizione nel mondo, avrebbe riscosso l’applauso generale. Sconcertava il mondo, invece, il fatto che egli mirasse a fini esattamente contrari.
Intanto accadde che il marchese di Castiglione avesse da sbrigare a Milano pratiche non rinviabili: ancora una volta bloccato dalla gotta, vi mandò Luigi. Quest’ultimo trascorse otto mesi nella città lombarda e siccome gli affari di famiglia non lo impegnavano più di tanto, pensò a non perdere tempo: alla pubblica scuola che i gesuiti tenevano nel palazzo di Brera (attuale sede dell’omonima pinacoteca) si iscrisse ai corsi di matematica e fisica. Egli non era preoccupato soltanto della vita spirituale: integrava la propria preparazione culturale applicandosi anche alle scienze esatte.
Durante il carnevale del 1585 fu organizzata una cavalcata per le strade della città: i giovani delle famiglie aristocratiche avevano modo così di esibire i loro migliori cavalli e il più sfarzoso abbigliamento. Fu invitato anche Luigi che con nostra, e forse anche loro, sorpresa accettò. Si presentò alla sfilata a cavalcioni di un vecchio mulo. Potete immaginare la sorpresa generale, forse lo sconcerto, forse le risate per l’insolita trovata che dava opportuno tocco di bizzarria alla festa. Ma conoscendo Luigi, viene spontaneo dubitare che si trattasse di una semplice estrosità carnevalesca. Forse con quel gesto egli intese offrirsi alle risa di scherno dei compagni e della folla, per penitenza. O forse, considerando che le sue penitenze erano sempre rigorosamente private e ricordando quanta intelligenza mettesse sempre in ogni cosa, egli intese mostrare con il suo atteggiamento in quale conto tenesse l’ostentazione del lusso, le vuote cerimonie, lo stile di vita dei nobili coetanei.
Nel frattempo don Ferrante fa leva sulla sua malattia e sul piano del sentimento: se te ne vai è la rovina per la nostra casa, Rodolfo è inadatto a governare, gli altri principi ti stimano e i sudditi ti amano, con il tuo esempio puoi guidarli sulla via del bene, io sono malato, tu potresti sin da ora sostituirmi, senza di te non so come fare… e giù gran pianto finale. E per quanto le lacrime di un padre certamente inteneriscono, Luigi non si lascia smuovere: “Sono certo che la mia chiamata viene da Dio e sarà Lui a provvedere alla famiglia e allo stato”.
Lettera di Luigi al Rev. Padre Claudio Acquaviva, Preposito Generale della Compagnia di Gesù (agosto 1585):
“Tutto questo ho voluto far sapere a Vostra Paternità, et insieme avvisarla come fra pochi giorni, per staccarmi maggiormente dal mondo, mi vestirò in habito clericale et renunziarò a fatto alla heredità mia, riserbandomi solo alcune cose per spendere in usi pii. In tanto supplico Vostra P.tà che, sicome m’è parso bene di tenere questo modo in tal negozio, solo per dare soddisfazione a mio P.re, come Vostra Paternità m’haveva imposto, così ella si persuada per cosa certa, che niente in questa vita mi poteva accadere con mio maggior disgusto e dolore, che l’essere sforzato a differire l’essecutione della mia volontà e vocatione di Dio, poiché io conosco benissimo che la vocatione è il maggior et il più segnalato benefitio che Divina Maestà mi potesse fare; però sia sicura che più tosto morirò mille volte, che lasci mai la volontà di servire Dio.”
Don Ferrante non si arrende ed ha chiesto aiuto alla sua causa a padre Achille Gagliardi. Tuttavia, anche lui, dopo aver parlato con Luigi si dichiara convinto della divina ispirazione del giovane e alza bandiera bianca.
A seguito di una prolungata situazione di stallo, un giorno Luigi, dopo aver tanto pregato, si presenta del “signor Padre” e con la mitezza dei forti che è pure la fortezza dei miti (San Tommaso), si rimette completamente a lui pur aggiungendo che la sua opposizione gli sembra contro la volontà di Dio. Luigi a questo punto ritorna nella sua stanza. Ferrante scoppia in grida e pianti: richiama Luigi e gli dà la sua benedizione (fine settembre 1585).
Le lacrime ed il sangue di un giovane diciassettenne hanno vinto sulle lacrime e le grida di un padre quarantatreenne.
A Mantova, nella contrada dell’Unicorno, nel palazzetto di San Sebastiano, sabato 2 novembre 1585, il sogno diviene realtà: Luigi (non ancora diciottenne) “di propria mano toccando corporalmente i Santi Evangeli di Dio” giura solennemente di cedere al fratello Rodolfo il diritto di primogenitura.
Molti parenti sono tristi, i cugini Marcantonio, Prospero e Fabio cercano di ironizzare, ma implicitamente tutti accusano il colpo.
Lettera di don Ferrante Gonzaga al Rev. Padre Claudio Acquaviva (3 novembre 1585):
“Illustrissimo e reverendissimo signor mio osservandissimo,
Siccome per lo passato ho giudicato conveniente ritardare la licenza a Don Luigi mio figliuolo d’entrare in codesta santa religione, per timore di qualche incostanza per la sua poca età, così ora parendomi di poter assicurare, che egli sia chiamato da Nostro Signore, non solo non ho avuto ardire di disturbarlo o differirgli più lungamente la licenza, che con tanta istanza mi ha sempre domandata; ma al contrario, per soddisfarlo con l’animo molto quieto e consolato lo mando a V.S.R., come a quella che gli sarà padre più utile di me. Io non la richiedo di cosa particolare intorno alla sua persona, solo certifico a V.S.R. ch’ella diviene padrona del più caro pegno che io abbia al mondo e della più principale speranza che io avessi alla conservazione di questa mia casa la quale per l’avvenire averà gran confidenza nelle orazioni di questo figliuolo e di V.S.R., nella cui buona grazia mi raccomando, pregandole Nostro Signore quella felicità che desidera.”
Le uniche persone presenti alla cerimonia felici sono la madre (la quale deve contenersi) ed Eleonora, figlia di Ferdinando I d’Austria, nonché sposa di Guglielmo Gonzaga. Quest’ultima fu la figura che più di tutte si è prodigata pubblicamente a sostegno della vocazione del giovane (non senza le numerose preghiere della madre). E Luigi? Luigi è il più sereno e il più cosciente di ciò che fa; si ritira per pregare e ricompare in abito di panno nero da gesuita.
Due giorno dopo parte alla volta di Roma rinunciando pure ad una cospicua rendita (400 scudi) che il padre voleva riservargli. Quel lunedì 5 novembre 1585 sul barcone che porta la sua carrozza sul Po, Luigi ha la sensazione dell’esodo definitivo dalla regione del peccato alla riva della ricchezza evangelica. Da terra il fratello Rodolfo lo saluta e del Turco che lo sta accompagnando a Roma dice: “Luigi credo che il Signor Rodolfo abbia avuto grande allegrezza in succedere al vostro stato”, ma la risposta giunge tempestiva: “Non tanto grande la sua allegrezza quanto la mia di rinunziarvi!”. Prima di giungere a Roma, c’è una importante tappa da fare: Loreto. Per ringraziare nuovamente la Madonna che aveva accolto il voto della madre.
La Roma di Sisto V accoglie Luigi. Sulla basilica di San Pietro c’è solo l’alto tamburo (la cupola sarà completata nel 1590) e dopo varie visite ufficiali di cortesia, Luigi pensa subito a fare il pellegrinaggio delle sette chiese (era il pellegrinaggio consigliato da san Filippo Neri: San Pietro, San Paolo, San Sebastiano, San Giovanni in Laterano, Santa Croce di Gerusalemme, San Lorenzo fuori le mura, Santa Maria Maggiore).
Da una lettera di don Ferrante veniamo a sapere che il 23 novembre Luigi prese “la benedittione” dal papa Sisto V “baciandole i piedi con la introduttione del signor conte d’Olivares”. I Gonzaga rendevano omaggio al leone rampante dei Peretti (stemma della famiglia di Sisto V). In quell’occasione il papa francescano ebbe modo di conoscere il giovane principino Gonzaga (“gli fece il Papa vari quesiti intorno alla vocazione, e in particolare l’interrogò se avesse ben pensato alle fatiche della Religione”; dopo le risposte di Luigi, il papa “lo licenziò con molte dimostrazioni d’amore”, convinto di avere di fronte un giovane serio e santo.
Il 25 novembre 1585, nella festa di santa Caterina, Luigi iniziò il noviziato; il periodo di formazione religiosa della durata di due anni, necessario per verificare la solidità della vocazione. Si assoggettò subito e volentieri alle restrizioni imposte dalla vita religiosa, come l’attendere ai più umili servizi della casa in totale obbedienza ai superiori. Soprattutto si dedicò ad una pratica che aveva ancora poco esercitato: il servizio attivo a favore del prossimo. La formazione dei novizi della Compagnia prevedeva infatti, regolari uscite per opere di bene, come insegnare il catechismo ai fanciulli nelle parrocchie, curare i malati poveri, visitare i carcerati per aiutare i sacerdoti nel prepararli alla confessione.
È in questo periodo che si incastra uno degli aneddoti più importanti della vita di Luigi. Durante un momento libero, mentre stavano giocando a palla, forse per istigare i compagni alla virtù della vigilanza uno chiese: “Se vi dicessero che fra pochi minuti ci fosse la fine del mondo cosa fareste?”; in una gara di zelo le risposte furono del tipo: “correrei a confessarmi”, “andrei in chiesa a pregare”, “cercherei il mio padre spirituale”. Il giovane Luigi no. La sua risposta? “Continuerei a giocare a palla”.
Ai molti probabilmente potrà significare che il futuro santo sentisse la sua coscienza “a posto” e non necessitasse di ulteriori supplementi di devozione; invece la risposta è ben più profonda di come possa sembrare. È che per Luigi la “fine del mondo” era presente nel momento stesso in cui giocava, era già nell’istante in cui stava vivendo. E così lo riempiva di un valore eterno. Senza bisogno che la minaccia di un futuro incerto lo distraesse dalla quotidianità. Il miracolo è già vivere coscientemente il contenuto dell’istante presente e nessuna istruzione per l’uso (anche se di carattere devoto) è allora necessaria. Il miracolo è che questo momento passeggero, inafferrabile, che quando ci pensi è già passato, proprio questo infinitesimale brandello del flusso del tempo ha valore e consistenza, non è perduto nel rimpianto di un istante che l’ha preceduto o nel sogno di uno che lo seguirà. La fine del mondo, di questo mondo, per Luigi, è arrivata così. Lui era pronto. Non perché si fosse imbevuto di asfissianti istruzioni per l’uso, ma perché aveva alle spalle infiniti istanti di miracolo. La sua morte stessa è stata uno di essi.
Il 25 novembre 1587, scaduto il periodo del noviziato, Luigi emise i voti religiosi di povertà, castità ed obbedienza.
Gli anni di studio, già così impegnativi, occuparono Luigi anche per problemi di famiglia. Egli aveva sperato, con la rinuncia al marchesato, di non doversene più occupare; tuttavia fu costretto a ritornare a casa. Il 27 ottobre 1586 Luigi si è recato a Napoli per accompagnare il suo maestro di noviziato, p. Giovanni Battista Pescatore, gravemente malato.
Dopo qualche mese a Napoli (Luigi è annoverato fra i patroni della città), gli viene comunicata la morte del padre (13 febbraio 1586). Viene a sapere che egli ha fatto una buona confessione prima di presentarsi al Signore e nel frattempo Luigi si prodiga in lettere di consolazione per sua madre.
Lettera di Luigi alla stessa Marchesa sua madre (10 aprile 1586):
“Ill. Sig. Madre in Cristo osserv. La consolazione, che di una mia, per una del P. Ministro di Mantova, intendo desiderare V.S. Ill. e con l’afflizione della perdita della felice memoria del signor mio Padre, sento averne bisogno, mi spinge, acciocché con la presente venga a ricordargli quello, che per un’altra mia gli raccomandai, che è la rassegnazione alla volontà divina, nella quale poiché è stato sempre in vita, chiamato a sé con sì felice transito, possiamo anco sperare, che sia per quella felicemente arrivato a quella vita, alla quale tutti aspiriamo, e che piuttosto dobbiamo rallegrarci, che dolerci, che pervenghino quelli che amiamo: sperando anche in Dio quello, dalla cui paterna provvidenza, che ha verso tutti, è stato così ordinato. Egli non lascierà di pregare, particolarmente per quelli che se gli raccomandano, come V.S. Ill. e Sua Casa. Per la quale siccome io non ho sinora mancato, così non lascerò di pregare S.D.M. acciò la consoli e regga.”
Il 25 febbraio 1588 a San Giovanni in Laterano Luigi riceve la tonsura. Seguono poi nell’ordine: ostiario (28 febbraio), lettore (6 marzo), esorcista (12 marzo), accolito (20 marzo).
Il 12 settembre 1589 mentre è a Frascati coi compagni per il mese di vacanza, su richiesta di sua madre e di donna Eleonora, deve partire per Castiglione per risolvere alcuni guai del fratello. È significativo come il p. Acquaviva e il p. Roberto Bellarmino, direttore spirituale del Collegio, tengano in grande considerazione Luigi come risolutore dei problemi familiari. Il futuro santo Bellarmino scrive su di lui: “Luigi, andate, ché io stimo che Dio n’abbia a restare servito”.
Rodolfo, troppo giovane per quella carica, di carattere irruento e incapace di misurare le conseguenze delle sue azioni, non accettava consigli, seminando a piene mani dolore per la madre e pericoli per lo stato. Luigi invece con i suoi interventi, dimostrò quanta esperienza di mondo avesse accumulato e come sapesse abilmente servirsene con energia e saggezza. Un giorno la giovane figlia del responsabile della zecca castiglionese, Elena Aliprandi, era uscita in campagna per una passeggiata quando, mentre passava accanto ad una carrozza ferma lungo la strada, due uomini la costrinsero a salirvi, portandolo via. Il rapimento, che si direbbe il modello per quello di Lucia narrato ne I promessi sposi, era stato comandato da Rodolfo, il quale tenne poi la donna presso di sé, suscitando scalpore e scandalo. Poco dopo, Rodolfo ne combinò un’altra delle sue, occupando militarmente la rocca di Solferino e così mettendosi in un’aspra controversia con
il duca di Mantova, il cugino Vincenzo, con il rischio di una guerra. Luigi fu pregato di intervenire. Tornato a casa, fece spola tra Mantova e Castiglione ascoltando le ragioni dei due contendenti, poi decise, e lo fece in modo così saggio che la decisione fu ascoltata da entrambi. Egli affrontò allora non la non meno spinosa questione del fratello che dava scandalo, vivendo con una donna che non era sua moglie: Rodolfo infatti, doveva sposarla o lasciarla andare. Dopo aver molto tergiversato, Rodolfo rivelò a Luigi che in realtà egli l’aveva già sposata segretamente perché, non essendo la sposa di sangue nobile, mancava l’approvazione dei parenti; inoltre temeva di contrariare uno zio, il cui feudo sperava di ereditare. Luigi si sentì sollevato dal sapere che il fratello non viveva in peccato. Tuttavia, agli occhi altrui rimaneva lo scandalo, un male gravissimo, da rimuovere senza attendere oltre: che importavano di fronte a ciò le questioni di sangue e di convenienza? Ma Rodolfo non lo capiva e rimandava; allora Luigi ruppe gli indugi con un gesto deciso: se entro dodici giorni non avesse reso pubblico il matrimonio, non l’avrebbe più considerato come fratello e avrebbe rotto i rapporti con lui. Rodolfo cedette, e Luigi in persona annunciò l’avvenuto matrimonio alla madre, ai parenti vicini e lontani e al popolo di Castiglione.
Rimosso lo scandalo, poteva accettare un invito della madre, la quale gli aveva chiesto di tenere una predica in chiesa. Il 3 marzo 1590 nella chiesa dei Disciplini, dall’altare di Sant’Anna, predicò sulla SS. Comunione. Ebbe tale effetto che preti e frati passarono tutta la notte a confessare e il mattino seguente, durante la Messa, si comunicarono persino Rodolfo, la moglie, e settecento fra uomini e donne. Luigi, compiuti ormai ventidue anni, partì da casa; non sarebbe più tornato. Nel suo cuore il presentimento di una morte vicina…
Dopo un breve periodo di studio a Milano, riparte alla volta di Roma (maggio 1590), trovandola molto cambiata. Gli resta ancora un anno di vita nell’Urbe: lo vive nella gioia della sua completa donazione; col catechismo commuove la gente di Campo de’ Fiori; continua a pregare e a studiare; si prepara a diventare sacerdote; sogna ancora le lontane missioni dell’Asia. Luigi è, sempre più, illuminato dalla fede in Cristo e da buon cristiano calcolatore, in termini di
cielo, il suo motto resta: “Quid hoc ad aeternitatem?” [=Che vale questo per l’eternità?].
L’inverno 1590-1591 fu particolarmente difficile per le popolazioni del Lazio. Alla scarsità di cibo si aggiunse l’affollamento dei contadini a Roma, scesi in città nella speranza di accedere alle scorte di viveri che ritenevano vi fossero state accumulate. Infine fece la comparsa il tremendo flagello chiamato peste.
I gesuiti, come altri religiosi, si prodigavano nell’assistenza degli appestati. Per loro occorreva cibo, medicine e vestiti. Saputo che a Roma si trovava Giovanni de’ Medici, suo compagno di giochi durante il soggiorno fiorentino, Luigi si presentò per chiedergli l’elemosina per i poveri. Entrò nel palazzo fastoso, con la tonaca rattoppata e la bisaccia sulle spalle. Giovanni ne fu vivamente colpito e l’elemosina superò di molte le attese.
Aveva scritto anche alla madre e al fratello per chiedere aiuto per i poveri.
Benchè i superiori, a motivo della sua debolezza di salute, volessero esentarlo dal servizio ai malati, egli chiese con insistenza, sinché ottenne di prestare servizio presso l’ospedale della Consolazione, vicino al Campidoglio. Vi si recava ogni giorno, benché dovesse costargli oltre ogni dire il contatto con il sudiciume, la miseria e gli aspetti più ripugnanti della malattia. Un giorno, mentre medicava una piaga sanguinante, un confratello lo vide fermarsi, turbato; quando gli chiese che avesse, Luigi confessò: “Anche quando ero nel mondo, la vista del sangue altrui mi faceva impallidire”.
La mattina del 3 marzo 1591, mentre era in cammino verso l’ospedale, vide steso per terra un appestato che si lamentava. Era contagioso, lo sapeva, e sapeva che i superiori intendevano evitargli il rischio di contrarre l’infezione:
ma poteva disinteressarsene e passare oltre, come quei tali che Gesù aveva bollato nella parabola del buon samaritano?
A fatica se lo caricò sulle spalle, lo portò all’ospedale, lo lavò, lo medicò e lo assistette fino a sera (“Che bello avervi incontrato sulla mia strada Signore!”). Quando vennero i confratelli per dargli il cambio, tornò nel suo abbaino del Collegio Romano e si mise a letto, con la febbre alta e i segni della pestilenza.
Una settimana dopo, aveva compiuto ventitré anni, parve agli estremi e gli fu dato Viatico e l’Unzione degli infermi. La sera di quel giorno la febbre violenta si placò. Le settimane trascorsero senza un lamento, con una serenità che edificava i visitatori. Il 10 giugno trovò la forza di dettare una lettera alla madre, nella quale le raccomandava di non piangere. Secondo le parole di San Paolo, la carità fa piangere con chi piange e gioire con chi gioisce. Ella dunque doveva provare grande gioia senza fine: tutta la famiglia doveva ricevere come un dono il “giungere alla riva di tutte le mie speranze”.
Fra le due e le tre di notte del 21 giugno, mentre teneva a fatica tra le mani una candela accesa e contemplava il Crocifisso, le labbra si fermarono invocando il nome di Gesù.
I moti del cuore di Luigi furono più forti dei divieti e imbattendosi lungo la strada in quell’appestato lasciato in stato di abbandono, non poté trattenersi dal caricarselo sulle spalle, portandolo in ospedale e dedicandosi personalmente alle sue cure. Un gesto istintivo e, allo stesso tempo, volontario, ispirato da una forza superiore a cui non è possibile opporsi, quella dell’amore gratuito e disinteressato. Un amore scelto e abbracciato anche a rischio della stessa vita. Il gesto di Luigi assume il carattere dell’esemplarità: egli non solo si pone a servizio dei malati, ma sceglie quelli che erano senza speranza, abbandonati e guardati con sospetto e orrore da tutti.
Come non vedere in questo uno stimolo a prendere coscienza dell’urgenza di educare (ed educarci) ad una cultura che superi le paure, le resistenze, le chiusure e, addirittura, la rabbia e il rancore verso quelle povertà spesso scartate, emarginate, tenute a distanza.
Luigi aveva desiderato per sé un’esistenza nobile. Ma non di quella nobiltà effimera e superficiale che veniva contrabbandata come tale negli ideali cortesi, bensì quella che traspare con chiarezza nelle parole con cui affermò la sua rinuncia al titolo ereditario: “Cerco la salvezza, cercatela anche voi! Non si può servire a due padroni. È troppo difficile salvarsi per un signore di Stato”. La sua personalità dunque, è tutt’altro che fragile. La libertà interiore con cui ha affrontato e determinato le scelte decisive della sua esistenza manifesta una forza che emana una fonte misteriosa. Smentendo l’immaturità tipica dei diciassette anni, ha saputo lasciarsi guidare dalla voce dello Spirito, riformulando alla radice il progetto che la sua famiglia aveva su di lui, mettendo da parte la primogenitura e resistendo ad ogni tipo di pressione e di tentazione.
Un modello autentico di anticonformismo anche per i giovani del nostro tempo. Non nel ribellismo spesso di facciata con cui si finge di prendersela con il mondo intero, ma scegliendo la vera libertà, nel salutare rifiuto di conformarsi a quanto di tossico e non genuino viene proposto dalla cultura e veicolato nella società. Il pericolo più grande, infatti, non risiede nei problemi e nelle sfide che i giovani devono affrontare, ma in quel cattivo spirito di reazione e adattamento, che li fa scivolare nella mediocrità. “Bisogna vivere, non vivacchiare” amava ripetere il beato Frassati. Eppure abbiamo l’impressione che molti ragazzi subiscano l’ambiente, senza libertà, discernimento e alternative, accontentandosi di una vita parziale, senza pienezza quindi, schiavi di quella banalità che fa appassire la persona. E quando si rinuncia a diventare uomini, non rimane altra via che interpretare la parte del personaggio, adattandosi ad assomigliare alla caricatura di quello che gli altri vogliono vedere in noi, per piacere loro, per illudersi di essere qualcuno. La vera libertà, invece, è inscindibile dalla vocazione, che chiama a diventare la persona che Dio suggerisce di essere. Sono grandi le opere di Dio per chi sa affidarsi totalmente a lui.
Come cristiani adulti dobbiamo sentire su di noi il compito di porre alle nuove generazioni una sana inquietudine, quasi sfidando la loro libertà. Siamo chiamati ad aiutare i giovani ad individuare le priorità. Luigi vi è riuscito. E lo ha fatto quasi tutto da solo. Dalle molteplici esperienze maturate in pochissimi anni ha saputo distillare il meglio. Prendendo le distanze dalla traiettoria più naturale e facendosi gesuita ha abbracciato il motto di sant’Ignazio di Loyola: “cercare e trovare Dio in tutte le cose”. Alla luce della sua testimonianza aveva riconosciuto in Dio “la perla di grande valore”.
Nota a margine:
Dopo la morte di Luigi, il fratello Rodolfo si fece protagonista di atti deplorevoli. Fece assassinare lo zio Alfonso (non avendo egli eredi maschi), marchese di Castel Goffredo, per poi occuparlo militarmente. Tenne in ostaggio la moglie dello zio Ippolita Maggi, assieme alla figlia Caterina. Oltre a ciò aveva fatto coniare monete contraffatte con la raffigurazione del papa Sisto V. A questi fatti giunse per lui la scomunica nel dicembre 1592. Rodolfo, che alternava in quel periodo la sua residenza tra Castiglione e Castel Goffredo, venne colpito da un colpo di archibugio il 3 gennaio 1593, per mano di Michele Volpetti (o Volpati) già suo domestico, mentre si recava a messa con la moglie e la figlia Cinzia, all’ingresso della chiesa di Sant’Erasmo a Castel Goffredo e morì sul colpo: la folla fece scempio del suo cadavere e i rivoltosi, appropriatisi della piazza e del suo palazzo, tennero prigioniere per giorni Elena e la figlia.
La salma di Rodolfo venne trasportata a Castiglione e sepolta nell‘oratorio di San Sebastiano, annesso al castello. Ma dopo quattro settimane, su disposizione del vescovo di Brescia Gianfrancesco Morosini, fu dissepolto, perché scomunicato e posto fuori dalla chiesa. Sua madre Marta ricorse al papa Gregorio XV per far ribenedire il defunto e ottenne di seppellirlo in terra consacrata solo nel 1600. Le tre figlie di Rodolfo (la piccola Elena morì alla tenera età di tre anni), su consiglio di padre Cepari, compagno di studi di Luigi (nonché biografo della mistica Maria Maddalena de’ Pazzi), fondarono la Congregazione delle Vergini di Gesù. La primogenita Cinzia (che aveva assistito alla morte del
padre) assieme alle sorelle Olimpia e Gridonia trascorsero la vita in preghiera di riparazione per le colpe del padre. Recentemente nel 2022 si è spenta l’ultima suora delle Vergini di Gesù.
Luigi Gonzaga è morto all’età di ventitré anni. Questi pochi anni di vita mortale (perché noi siamo abituati a fare i nostri conti di tempo terreno e attendiamo sempre a mettere in moto la nostra “santità” con quel senso di “ma tanto c’è tempo”) a lui sono bastati per diventare santo, nonché patrono: della gioventù cattolica, degli studenti, dei ministranti, dei malati di AIDS e di molti comuni italiani.
San Pio X quando era vescovo di Mantova scrisse il canto “O Luigi, o vago giglio” messo poi in musica da Mons. Lorenzo Perosi.
Ultima lettera di Luigi, alla stessa Marchesa sua madre (10 giugno 1591):
Ill. Sig. Madre in Cristo Osserv.
Pax Christi.
La grazia e consolazione dello Spirito Santo sia sempre con V.S. Ill. La lettera di V.S. mi ha trovato vivo in questa regione de’ morti, ma sù sù per andare a lodare Dio per sempre nella terra de’ viventi. Pensavo a quest’ora d’aver già varcato questo passo: ma la violenza della febbre (come nell’altra scrissi) nel maggior corso e fervore rallentò un poco, e mi ha condotto lentamente fin al giorno glorioso dell’Ascensione. Dal qual tempo per un gran concorso di catarro al petto si rinforzò, talché a mano a mano m’avvio a dolci e cari abbracciamenti del Celeste Padre, nel cui seno spero potermi riposare con sicurezza, e sempre. E così si accordano le diverse novelle arrivate in coteste bande di me, come ne scrivo (o scrissero) anche al Sig. Marchese.
Or se la carità, come dice San Paolo, fa piangere con quelli che piangono, e rallegrarsi con quelli che stanno allegri, grande dovrà essere il gaudio di V.S., Signora Madre, per la grazia che Dio le fa nella persona mia, conducendomi Dio Nostro Signor al vero gaudio, ed assicurandomi di non aver più a perderlo.
Confesso a V.S. Ill. che mi smarrisco et perdo nella considerazione della bontà divina, pelago senza riva e senza fondo, il quale mi chiama ad una eterna requie per sì piccola et breve fatiga: m’invita et chiama dal cielo, a quel sommo bene che tanto negligentemente cercai, et mi promette il frutto di quelle lagrime che tanto scarsamente ho seminate.
Veda ed avvertisca V.S. Ill. di non far torto a questa infinita bontà, come sarebbe senza dubbio quando piangesse come morto chi ha da vivere dinanzi a Dio, per giovare colle sue orazioni più assai che non faceva di qua. Non sarà lunga questa lontananza, lassù ci rivedremo e godremo per non staccarsi, uniti insieme col nostro Redentore, lodandolo con tutte le forze, et cantando eternamente le sue misericordie.
Non dubito punto che, lasciando quello che dettano le ragioni del sangue, (con facilità) apriremo la porta della fede e a quella semplice ma pure ubbidienza, di che siano tenuti a Dio, offerendogli liberamente e prontamente quello ch’è suo et tanto più volentieri quanto la cosa tolta ci era più cara, stimando al fermo che quello che Dio fa, tutto è ben fatto, levandoci quello che prima ci aveva dato, et non per altro che per metterlo in loco sicuro e franco et per dargli quello che tutti vorremmo per noi.
Ho detto tutto questo non per altro che sodisfare al mio desiderio, che ho, che V.S. Ill. con tutta la famiglia riceva in loco di caro dono questa mia partita, et con la sua materna benedittione mi accompagni et aiuti a passare questo golfo, et giungere a riva di tutte le mie speranze. Il che ho fatto tanto più di buona voglia, quanto che non mi è restato con che altra cosa dare qualche dimostrazione dell’amore et riverenza filiali che le devo.
Finisco dimandando di novo (et da capo) umilmente la sua benedittione.
Di Roma a 10 di Giugno 1591.
Di V.S. Illustrissima
Figliuolo in Cristo obedientiss.o
Luigi Gonzaga
All’Ill.ma S.ra Madre in Chr.o Oss.ma La Sig.ra Marchesa di Castiglione.
Alla morte del giovane Luigi, il suo corpo profumava di giglio.
Vittorio Acerbi
Preghiera a San Luigi per impetrare la grazia della Purità:
O Luigi santo, di angelici costumi adorno,
io indegnissimo vostro devoto, raccomando a voi
singolarmente la castità dell’anima e del corpo mio.
Vi prego per l’angelica vostra purità di raccomandarmi
all’Agnello immacolato Gesù Cristo, ed alla sua Santissima Madre Vergine delle vergini Maria, ed a custodirmi da ogni grave peccato. Non permettete ch’io m’imbratti di macchia alcuna d’impurità;
ma quando mi vedrete nella tentazione e nel pericolo di peccare, allontanate dal cuor mio tutti gli affetti immondi;
e, risvegliando in me la memoria dell’eternità e di Gesù Crocifisso, imprimetemi nel cuore un sentimento di timore santo di Dio;
e, riscaldandomi di amor divino, fate che meriti con voi
di godere Iddio nel Cielo. – Così sia.