Fonte: La Stampa
Lo studioso cattolico mette in guardia dalla «divinizzazione della scienza». E afferma: «Abbiamo perso il senso del sacro»
GIACOMO GALEAZZIPUBBLICATO IL05 Marzo 2020
ROMA. «Tutto ciò che è umano va relativizzato», evidenzia lo storico cattolico Franco Cardini che, di fronte all’emergenza Coronavirus, richiama l’importanza della «dimensione pubblica della fede».
Professore, qual è oggi la reazione del credente all’epidemia?
«In Italia e in Occidente si osserva una reazione infantile. I numeri attuali dell’emergenza dovrebbero indurci a un atteggiamento responsabile. E cioè, come credenti, dovremmo pensare che ogni giorno nel mondo muoiono migliaia di bambini per fame o per mancanza di cure. Se non si fa questa distinzione, ogni ragionamento è falsato».
Come si comportavano nel passato i cristiani nelle situazioni di emergenza?
«Una volta si aveva fede. Fino alla rivoluzione industriale, si sapeva poco della trasmissione dei virus. La medicina dell’epoca pensava che il contagio avvenisse per la corruzione dell’aria. La teoria aristotelica dei quattro elementi (terra, aria, fuoco e acqua) valeva per la composizione sia del mondo sia del corpo umano. Se uno dei quattro elementi si alterava, se un umore si corrompeva, allora si manifestava la malattia. Il compito della scienza era quello di cercare di riequilibrare gli umori nell’organismo».
La fede prevaleva sulla scienza?
«Bisogna intendersi sui termini. Attenzione a definire quelle pre-illuministiche come credenze pseudo-scientifiche. Erano le risposte che il sapere di allora riusciva a dare per fronteggiare l’epidemia. Tra pochi decenni diranno le stesse cose delle odierne soluzioni proposte dalla medicina contro il Coronavirus. La differenza semmai è un’altra».
Quale?
«Le cause dell’epidemia venivano rintracciate nella corruzione dell’aria o negli influssi delle stelle, ma in passato prevaleva la granitica convinzione che tutto fosse sovrastato dalla volontà divina. Dall’Illuminismo in poi, invece, l’Occidente ha cominciato a ragionare per individui e non come collettività. E questo è un grave errore perché, come ci ricorda Papa Francesco, non si devono confondere gli individui con le persone».
Dov’è la differenza?
«Si è persona se si entra in relazione con gli altri, relativizzando se stesso rispetto alla società. Aver reciso il cordone con il sacro ha portato ad assolutizzare l’individuo e ciò spiega perché ci comportiamo da bambini sciocchi davanti al Coronavirus. Noi occidentali abbiamo scoperto una quantità di cose, abbiamo fatto progredire la conoscenza umana ma abbiamo perso il senso del sacro».
Che tipo di fede prevale?
«Una fede fragile e individualista. La nostra fede in Dio zoppica. Oggi non faremmo mai una novena affinché Dio ci liberi dall’epidemia. Sarebbero gli stessi medici cattolici ad ammonirci di pregare in casa. L’epidemiologia moderna è un incentivo alla nostra carenza di fede. Siamo dentro un cortocircuito da cui non riusciamo a uscire. Oggi la gente si preoccupa dei pericoli naturali e solo in un secondo momento pensa che Dio ci aiuti. Dilaga l’errata convinzione che pregare privatamente e pregare insieme siano la stessa cosa».
Non è così?
«No, assolutamente. Cito un episodio emblematico. Sant’Agostino vide Sant’Ambrogio meditare in silenzio la parola di Dio e ne rimase sconvolto perché era abituato alla preghiera a voce alta e collettiva come nella tradizione latina. Oggi non capiamo lo stupore di Sant’Agostino perché pensiamo che non sia importante se la preghiera sia individuale o comunitaria».
Non si prega da soli?
«Esiste ovviamente la preghiera mistica che si fa in silenzio e da soli, ma, come direbbero gli ebrei, non è la preghiera che Dio predilige. La preghiera privilegiata è quella che il popolo di Dio fa, ordinatamente, tutto insieme. Una volta durante le epidemie si organizzavano novene e processioni per invocare la protezione divina, oggi si chiudono le chiese. Non andiamo a messa e quindi ci rassegniamo all’isolamento. La prudenza è sacrosanta e la scienza è preziosa, ma manca una riflessione più ampia».
È una crisi di senso?
«Sì. Abbiamo tagliato le radici che ci tenevano in contatto con la dimensione trascendente. La vera grande epidemia attuale è la nostra selvaggia e disperata paura. Durante la peste del 1630 si sapeva che la morte non è la fine di tutto. Oggi, invece, si usano i colori pastello ai funerali perché il nero e il violaceo suscitano terrore. Sono stato poco tempo fa in India e alcuni medici locali mi hanno confermato che aveva ragione Madre Teresa: la differenza tra un orientale e un occidentale è l’atteggiamento di fronte alla morte. Noi occidentali ne siamo terrorizzati, non sappiamo più morire».