Tratto da: Sabino Paciolla
Di +Vito Angiuli, Ugento, 15 agosto 2021 Il vescovo
L’eutanasia e i paradossi del principio di autodeterminazione
Messaggio alla Chiesa di Ugento-S. Maria di Leuca
Cari fratelli e sorelle,
la Lettera della Congregazione per la dottrina della fede “Samaritanus bonus” (14 luglio 2020) sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita illustra in modo ampio e approfondito la dottrina della Chiesa sui temi dell’eutanasia e del suicidio assistito. Il principio fondamentale è che la vita mantiene la sua dignità dal suo inizio fino alla sua naturale conclusione. Pertanto, come ha bisogno di essere accudita e custodita nel suo inizio così deve essere amorevolmente assistita nel momento finale, soprattutto in presenza di gravi e invincibili malattie, attraverso le cure palliative e la terapia del dolore. Un bambino non perde la sua dignità anche se è in tutto dipendente dalla cura dei genitori. Allo stesso modo, una persona gravemente malata conserva il suo inalienabile valore anche se impossibilitato ad agire. In questa prospettiva, «una società merita la qualifica di “civile” se sviluppa gli anticorpi contro la cultura dello scarto; se riconosce il valore intangibile della vita umana; se la solidarietà è fattivamente praticata e salvaguardata come fondamento della convivenza» (Samaritanus bonus, V, 1).
I promotori dell’iniziativa referendaria, invece, in perfetta sintonia con lo “spirito del tempo”, si muovono in una visione antropologica totalmente differente, sintetizzata dallo slogan: “Liberi fino alla fine”. L’idea fondamentale è la seguente: niente e nessuno deve poter limitare la libertà personale, soprattutto quando si tratta di questioni che toccano la propria persona e il proprio destino. L’io individuale non deve avere altra norma e altra regola se non la propria insindacabile decisione anche di fronte alla morte.
Colonna portante di questa visione è il “dogma laico”, ritenuto inamovibile e incontestabile, del diritto illimitato di ogni individuo a decidere del proprio destino rimuovendo ogni possibile vincolo etico e sociale. La libertà si pone in modo assoluto e si qualifica come “autodeterminazione estrema”. Nel “moderno giardino dell’Eden”, vige la legge di andare “al di là del bene e del male” (F. Nietzsche) ossia l’imperativo a superare ogni morale oggettiva in vista della trasmutazione di tutti i valori ad opera di una libertà dell’individuo che deve essere senza limiti e senza divieti non solo divini, ma anche umani. Criticando questa visione, il noto moralista Mons. Mauro Cozzoli ha precisato che «la libertà cresce e matura nel passaggio dalla libertà di scelta (autodeterminazione) alla libertà morale (autodeterminazione per il bene), cui i classici riservavano il nome libertas, chiamando la prima arbitrium. Fissando la libertà sull’arbitrium, l’individuo non diventa libero ma libertario» (Avvenire, martedì 12 luglio 2011).
In riferimento al tema dell’eutanasia, mi permetto di evidenziare quattro paradossi in cui si incorre quando si passa dalla libertas all’arbitrium. Il primo paradosso si riferisce al fatto che la vita è intrinsecamente limitata nel suo inizio e nella sua fine. Essa scorre tra due estremi: la nascita e la morte. Vivere significa riconoscere il limite intrinseco al nascere e al morire. Accettare di vivere anche per un solo istante, significa implicitamente accettare la limitatezza della vita. Se il limite è parte integrante della vita, lo è necessariamente anche della libertà. Non esiste una libertà in astratto, ma solo in quanto legata alla nascita. Ora, se non si è liberi di nascere come si può essere liberi di morire? In realtà, si è solo liberi di vivere. «Il miracolo della libertà – scrive Hannah Arendt – è insito in questo saper cominciare che, a sua volta, è insito nel fatto che ogni uomo, in quanto per nascita è venuto al mondo che esisteva prima di lui, e che continuerà dopo di lui, è un nuovo inizio» (H. Arendt, Cos’è la politica?, tr. it. Marina Bistolfi, Einaudi, Torino 2006, p. 26).
Il secondo paradosso consiste nel fatto che l’eutanasia e il suicidio assistito sono presentati surrettiziamente come espressione di libertà. In realtà, sono solo una “fuga dalla vita e dalla libertà”. Con l’eutanasia e il suicidio assistito si spezza il filo che lega la libertà al suo cominciamento. In tal modo, questa estrema decisione diventa espressione di una forma radicale di protesta e di rivolta contro la vita che non è stata scelta e voluta, ma imposta da un atto precedente alla propria volontà. La vita stessa è, dunque, intesa come una sciagura da cui fuggire, non solo perché carica di dolore invincibile, ma soprattutto perché frutto di un’azione avvenuta senza il personale acconsentimento.
A tal proposito, è significativa l’espressione di Sileno, che Nietzsche indica come portatore della saggezza dionisiaca e del senso tragico dell’esistenza. Così scrive il filosofo tedesco: «L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine tra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tacque; finché, costretto dal re, uscì da ultimo fra stridule risa in queste parole: “Stirpe miserabile ed effimera, figlia del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto”» (F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 2018, pp. 31-32).
Il terzo paradosso si riferisce al fatto che se il “suicidio assistito” deve essere consentito quando la malattia irreversibile riguarda il corpo, non si vede il motivo per il quale non dovrebbe essere praticato anche quando tocca la psiche. A rigor di logica, anche a chi ha perso il gusto della vita e “vive senza vivere” dovrebbe essere consentito quanto è permesso a chi è affetto da una malattia incurabile. Non si soffre di meno nell’anima, rispetto a quanto si soffre nel corpo. Si svela così la tragicità della “cultura di morte” che aleggia nel nostro tempo. Essa, come un’ombra oscura, spinge la vita in un abisso senza senso.
Il quarto paradosso consiste nella palese contraddizione tra la libertà posta in modo assoluto in ambito individuale e la libertà che si esercita in modo condizionato in ambito sociale. Se si accetta l’idea che la libertà deve esprimersi in modo assoluto sul piano dei diritti individuali, non si vede il motivo per il quale la stessa cosa non debba valere anche per le norme, i limiti e i divieti imposti dalla società. A tutti dovrebbe essere consentito di vivere liberi da ogni imposizione esterna alla propria libertà di autodeterminazione. Il buon senso, però, intuisce che se la libertà si dovesse esprimere in modo assoluto anche in ambito sociale si aprirebbe la porta all’anarchia e alla dissoluzione di qualsiasi forma di società e si andrebbe incontro a un “suicidio sociale” non meno deleterio del “suicidio assistito”.
La Vergine Maria Assunta in cielo in anima e corpo ci insegni ad avere cura dei nostri fratelli ammalati, soprattutto di quelli affetti da gravi patologie, conforti tutti noi con la sua presenza materna e ci aiuti ad avere lo sguardo rivolto al cielo, dove Ella ci attende con amore di Madre.
+Vito Angiuli
Ugento, 15 agosto 2021 Il vescovo
Solennità di Maria Assunta in cielo